Lo ha ricordato il 12 settembre con una certa veemenza Ennio Doris, numero uno di Banca Mediolanum, istituto partecipato da Silvio Berlusconi: «I crediti in sofferenza (non più recuperabili, ndr) dal 2008 ad oggi sono quasi quadruplicati, è una cosa spaventosa. E le banche sono proprio al centro di questo ciclone». La cattiva notizia è che, nonostante il miglioramento da parte della Bce delle stime sul PIL dell’Eurozona, fino a quando la ripresa non sarà strutturale il ciclone non si tramuterà tanto facilmente in pioggia estiva. La buona è che le soluzioni per consentire alle banche di prestare denaro all’economia reale ci sono.
A inizio settimana il differenziale di rendimento tra i titoli decennali italiani e quelli tedeschi ha superato lo spread tra i bond di pari durata spagnoli nel confronto con i bund. È la seconda volta che accade, la prima è stata il 21 agosto. Due indizi non fanno ancora una prova, ma quantomeno pongono qualche dubbio. La partita tra Madrid e Roma è ancora in bilico: le sofferenze nei libri delle banche (al netto degli attivi illiquidi conferiti alla bad bank, che alcuni vorrebbero adottare anche in Italia) sono all’11,2% degli impieghi rispetto al 7,2% delle italiane, il Pil si contrarrà dell’1,5% nel 2013 e salirà dello 0,9% nel 2014, mentre in Italia i due indicatori segnano rispettivamente -1,3 e +0,7 (fonte: stime ufficiali Commissione europea) e il tasso di disoccupazione è al 27% rispetto al 12% italiano. La Spagna è costata di più al contribuente europeo: 100 miliardi per il salvataggio e altri 44 per l’acquisto dei titoli pubblici da parte della Bce a fine 2012, l’Italia invece si è fermata a 99 miliardi. Per gli operatori sul mercato, tuttavia, la bad bank rappresenta soltanto un tampone poiché è funzionale alla pulizia dei libri ma non alla ripresa del credito.
E dunque gli istituti iberici si sono rivolti alle autorità fiscali del Paese per verificare la possibilità di convertire le attività per imposte anticipate (DTA, deferred tax asset) in crediti fiscali. Mossa che consentirebbe di utilizzare 30 miliardi dei 50 di DTA, aumentando il cuscinetto di capitale Tier 1 richiesto da Basilea III per annullare gli effetti degli shock esogeni. I crediti fiscali, a differenza delle attività per imposte anticipate, sono conteggiabili nel novero degli attivi di alta qualità ai fini regolamentari. Ironia della sorte, in Italia un provvedimento del genere esiste già – il comma 55 dell’art.2 del decreto Milleproroghe 225/2010 – e pone un unico paletto: il bilancio in perdita.
Grosso modo funziona così: le svalutazioni dei crediti non più recuperabili sono deducibili in una percentuale dello 0,30% dei crediti in bilancio nell’esercizio corrente, mentre la parte rimanente può essere dedotta dalle tasse in 18 anni, nel frattempo finisce in una specie di fondo dell’attivo, chiamato “attività per imposte anticipate” (DTA). La trasformazione in crediti d’imposta, in percentuale pari al rapporto fra la perdita dell’esercizio e il capitale sociale più le riserve, avviene come detto soltanto quando il bilancio è in rosso. Una delle battaglie dell’Abi, l’associazione bancaria italiana presieduta da Antonio Patuelli, è proprio sulla riduzione dei crediti in tempi più stretti rispetto agli attuali 18 anni, rendendoli attivi liquidi.
Il grave problema è che il tesoretto da 2,5 miliardi incassato dagli istituti di credito nel 2012 – probabilmente non raggiungerà una cifra simile nel 2013, altrimenti significherebbe che più banche sono andate in rosso – non è stato trasferito all’economia reale. Lo dicono con chiarezza gli ultimi dati di Bankitalia: a luglio le sofferenze sono salite del 22,2% anno su anno, mentre i prestiti al settore privato sono diminuiti del 3,3% e quelli alle famiglie dell’1,1 per cento. Ciò succede per un’insieme di motivi: la corsa alla compliance dei requisiti di Basilea III, il costo di finanziarsi sull’interbancario e la fuga dei fondi di mercato monetario statunitensi dall’Europa hanno reso molto difficoltoso il funding degli istituti italiani. Risultato? La Bce stima che uno spread del 2% sui tassi d’interesse sui nuovi crediti – calcolato tra Italia e Germania a dicembre 2012 – comporta di per sé un aumento del costo del lavoro del 4-5% e una riduzione degli utili operativi del 10 per cento.
Consapevole della situazione, Eurotower di recente messo in campo alcune misure. Tra le quali l’abbassamento dal 16 al 10% il taglio al valore nominale delle Asset backed securities (Abs) – obbligazioni emesse a seguito di cartolarizzazioni e garantite da altri attivi – utilizzate dalle banche come collaterale per le operazioni di rifinanziamento presso la Bce. Abbassandone contestualmente i requisiti di rating (almeno due agenzie di rating sulle quattro riconosciute da Eurotower dovranno esprimere un giudizio almeno pari ad A). Una delle leve per ridare ossigeno al credito ed evitare la balcanizzazione del sistema finanziario all’interno dell’Eurozona.
L’impatto dei diversi fondamentali dei Paesi membri sul costo del credito e del funding degli istituti nazionali ha spinto le nostre banche ad abusare del Fondo centrale di garanzia istituito presso il ministero dello Sviluppo Economico e recentemente ampliato. Nato per garantire l’accesso al credito alle startup o alle Pmi non bancabili – cioè con rating interno troppo rischioso – il Fondo si è trasformato in uno strumento utile alle banche per liberare prezioso capitale da conteggiareai fini di Basilea. La parola magica è “ponderazione zero”: per la parte dell’esposizione a garanzia diretta e controgarantita “a prima richiesta” dallo Stato italiano, e quindi da tutti noi, gli istituti di credito sono sollevati dall’onere di allocare capitale a copertura del suddetto credito. Teoricamente, il meccanismo dovrebbe comportare minori tassi su fidi e mutui. In pratica non è così. Per un motivo banale: nei regolamenti di funzionamento del Fondo non c’è nessun obbligo di tal genere. Al Fondo di garanzia se ne sta discutendo da qualche mese, ma la competenza per stilare un decreto attuativo spetta al Mise, in altre faccende affaccendato.
Action Institute, think tank indipendente e apolitico guidato da Carlotta de Franceschi, con un comitato scientifico composto da Alberto Alesina, l’ex rettore della Bocconi, Guido Tabellini, e il Nobel Michael Spence, presenterà lunedì all’Einaudi Institute for economics and finance di Roma una proposta per diminuire il deficit di competitività italiano per la parte che dipende dal costo del credito. L’idea, supportata da Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea per gli investimenti (Bei), è creare un veicolo pubblico di diritto lussemburghese, dunque con rating superiore a quello dell’Italia, rimpinguarlo con 10 miliardi di fondi strutturali europei non utilizzati (del programma 2007-2013), e impiegarlo con una leva di 10 volte – che implica una potenza di fuoco da 150-200 miliardi – per garantire i portafogli di crediti alle Pmi delle banche e renderli più appetibili agli occhi di Eurotower. Lato banche, il fondo interverrà sulle “second loss”, le perdite inattese non coperte (first loss) dalla commissione che già la banca applica all’impresa. In cambio, gli istituti dovranno prestare denaro alle imprese a tassi calmierati. Ovvero, con un costo del credito mediamente inferiore dell’1 per cento. Sperando che, a quel punto, le banche aprano davvero i rubinetti.