Autore : Daniele Bucello
Data: 17-03-2016
Tipo: Altro
Tematica: Capitale Umano
In questi giorni a Bruxelles i capi di Governo del Vecchio Continente affronteranno il tema della crisi migratoria, problema che da quasi un anno divide l’opinione pubblica e la stessa Unione. Fra le proposte spiccano un coinvolgimento importante della Turchia, regole per i visti ed il transito di immigrati, oltre alla creazione di zone umanitarie e l’aiuto alla Grecia per gestire l’emergenza e proteggere i confini. Comunque si decida di gestirla, questa sfida non si esaurirà in tempi brevi e cambierà profondamente l’Europa. Che impatto avrà dunque questo flusso migratorio sulle nostre economie? Action Institute prova a dare una risposta.
La storia insegna come gli effetti dell’immigrazione su un sistema sociale ed economico possano rivelarsi assai proficui. Quando gli Ugonotti erano considerati fuorilegge nella Francia di Luigi XIV, a cavallo tra ‘600 e ‘700, in migliaia fuggirono in altri paesi europei. Bruegel riporta come Hornung nel 2014 abbia esaminato l’impatto di tale migrazione di massa sulla produttività delle economie ospiti, evidenziando ad esempio come in Prussia ci fossero stati benefici per il settore manifatturiero tessile, ambito in cui i francesi immigrati avevano competenze specifiche. Un aumento di 1 punto percentuale della quota di Ugonotti presso la popolazione generò infatti un aumento di 1,4 punti nella produttività di tale comparto. Per arrivare a tempi più recenti, quando tra 1930 e 1944 più di 133.000 ebrei tedeschi trovavano rifugio negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste, lo stesso articolo di Bruegel stima che avessero determinato un incremento del 71% dei brevetti locali.
Tali esempi riguardano migrazioni di persone qualificate, ma lo studio di Bruegel suggerisce, riportando il lavoro condotto da Rachel Harris, che la capacità di innovazione delle economie ospitanti può crescere anche in caso di immigrati non qualificati: quando nel 1980 avvenne l’Esodo di Mariel, un’ondata migratoria in Florida di cubani scarsamente qualificati e con un basso livello di inglese, vi fu un aumento di brevetti negli ambiti tecnologici con basse barriere all’entrata. Rachel Harris suggerisce che la ragione di ciò risiedesse nel fatto che singoli inventori avessero avuto accesso ad una grande quantità di lavoratori sì poco qualificati, ma in grado di svolgere lavori manuali e domestici e permettere quindi loro di dedicare più tempo alle innovazioni.
Nel 2015 l’afflusso di rifugiati extracomunitari in Europa è stato, secondo il World Economic Forum, superiore ad un milione, cifra senza precedenti nella storia. Gli immigrati sono mediamente assai più giovani rispetto alle popolazioni nazionali, ad esempio quella tedesca, e ciò per un paese alle prese con problemi di invecchiamento demografico come la Germania è una buona notizia. Bruegel riporta che le autorità tedesche hanno stimato fino ad 800.000 richiedenti asilo nel 2015, un valore che potrebbe essere troppo alto ma che comunque rappresenterebbe circa l’1% della popolazione della Germania.
Secondo stime di RWI Essen evidenziate da Pia Huttl ed Alvaro Leandro su Bruegel, i rifugiati sono costati allo Stato tedesco circa 10 miliardi di euro nel 2015, ma il valore dovrebbe risultare ancora più alto nel 2016. Gli esperti di Bruegel riconoscono che tali valutazioni appaiono simili a quelle effettuate dal governo tedesco, secondo cui un rifugiato costa mediamente 12.000 euro l’anno. Nonostante ciò, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble sostiene che i costi immediati di gestione dei profughi siano gestibili, inoltre la ricerca ha documentato che gli stranieri che vivono in Germania pagano di più allo Stato rispetto a quanto ricevono in termini di prestazioni sociali. Ciò non può che implicare benefici a lungo termine per le finanze pubbliche, ad esempio circa la sostenibilità delle pensioni. È evidente che però tali benefici dipendano anche dal livello di integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro europeo.
L’industria tedesca a questo proposito ha domandato modifiche legali per facilitare l’integrazione di lavoratori stranieri che portino competenze specifiche: una delle richieste concerne il loro diritto di occupare posizioni di apprendistato, in modo da affinare o aggiornare tali competenze. La Germania ha fama di essere restrittiva in materia di immigrati, ma l’apertura del mercato del lavoro fornirebbe una spinta alla sua economia: nuovi occupati implicherebbero nuovi investimenti ed anche nuove abitazioni, beneficiando il settore edile. Ciò, unito al tasso di risparmio più basso che evidenziano gli stranieri, farebbe aumentare la domanda e quindi la crescita economica, con conseguenze positive a catena anche nei paesi vicini.
Alcuni temono che gli immigrati possano frenare la crescita dei salari, ma l’evidenza empirica li smentisce: un extracomunitario poco qualificato contribuisce comunque a salari più alti per i lavoratori qualificati locali, mentre uno con particolari abilità può competere con questi ultimi. Huttl e Leandro evidenziano come tuttavia esista un problema, studiato dall’OCSE e citato da The Economist: il contributo fiscale netto dei migranti tende ad essere inferiore a quello dei nativi. La ragione di ciò sono più bassi livelli di occupazione, soprattutto presso le donne, per ragioni di scarse competenze linguistiche o mancanza di formazione: andrebbe quindi incentivata la partecipazione degli extracomunitari alla forza lavoro.
Huttl e Leandro riportano altri studi, come quelli condotti da Foged e Peri nel 2015, i quali mostrano tra l’altro come gli immigrati, che tendono ad avere minori livelli di istruzione ed esperienza, spostino i lavoratori autoctoni verso occupazioni meno manuali, più specializzate e quindi facilmente più remunerate. Tali benefici, prima evidenziati con l’esodo di Mariel, sono già studiati da un’ampia letteratura che Lidia Farrè, come riporta Bruegel, cita in merito alla complementarietà tra donne locali qualificate e lavoratori immigrati, i quali, impegnandosi in lavori domestici e di cura di bambini ed anziani, permettono alle donne di sostituire le ore di lavoro casalingo con ore di lavoro più qualificato.
Concludono Huttl e Leandro: se, come sostiene l’esperto Hein de Haas, in ultima analisi l’immigrazione aumenta i Pil dei paesi europei poiché arricchisce la forza lavoro, allora occorre una policy che miri a favorire l’integrazione degli extracomunitari. Dal momento che l’onere economico di una politica pro rifugiati non risulta particolarmente pesante, i leader europei dovrebbero bilanciare al meglio le competenze dei migranti e le necessità dei paesi comunitari. È necessario un migliore sistema informativo riguardo alle abilità degli stranieri in arrivo, al fine di integrarli al meglio negli ambienti socio-economici ospitanti e garantire che la loro capacità di favorire la crescita della produttività e l’innovazione non sia sprecata.
Andrebbero inoltre abbattute le barriere della comunicazione, con corsi linguistici che permettano loro di essere competitivi sul mercato lavorativo il più velocemente possibile. L’attuazione di tutto ciò gioverebbe tanto ai migranti quanto ai paesi ospiti a costi non proibitivi ed a proposito di questi ultimi è bene ricordare la lezione della Svezia, il maggior paese europeo per numero di rifugiati pro capite: il suo sistema di welfare offre agli immigrati molto di più di quanto farebbero altri Stati europei, eppure si stima che rappresentino soltanto il 5,6% della spesa pubblica totale svedese, valore non certo in linea con la loro quota di popolazione lì. Se altri paesi dell’Europa occidentale avessero la percentuale svedese di assunzione pro-capite di profughi degli ultimi dieci anni, la crisi attuale forse sarebbe stata decisamente meno grave.