Autore : Francesco Raffaelli
Data: 22-01-2019
Tipo: Altro
Tematica: Innovazione
In principio, nell’immaginario dell’uomo medio italiano, l’attività bancaria era associata a due parole: sicurezza ed austerità. Da una parte, infatti, ottenere un lavoro in banca significava anzitutto garantire a se stessi e alla propria famiglia un lavoro stabile e ben retribuito, dall’altra le banche erano percepite come istituzioni algide, alle prese con i lenti ritmi delle liturgie della burocrazia e quindi distanti dalla dinamicità del mondo reale.
Poi, dai tardi Anni Ottanta, è arrivata la Financial Technology.
Con il termine FinTech, nato dalla crasi di Finance e Technology, si indica il punto di incontro tra strumenti finanziari e tecnologia, e, per esteso, il processo di innovazione che sta rivoluzionando l’attività bancaria, spingendola ad abbandonare i servizi tradizionali per offrirne di nuovi grazie all’apporto delle moderne tecnologie.
In poche parole, se un tempo le transazioni avvenivano quasi solo in contanti e bisognava fare la fila per ritirare i soldi dal proprio conto corrente, oggi possiamo ricaricare il nostro cellulare o pagare un bonifico muovendo un dito sul touch-screen dello smartphone.
E sebbene questi prodotti e servizi siano ormai diventati una costante della nostra quotidianità, essi sono il risultato di mutamenti del mercato ben più profondi, da rintracciarsi principalmente nei cambiamenti delle condizioni dell’offerta di servizi bancari e finanziari negli ultimi quaranta anni. Da una parte, infatti, si è registrato un aumento dell’attività di regolamentazione, sempre più incisiva e diffusa, e la conseguente riduzione dei profitti, dall’altra le nuove tecnologie informatiche e la diffusione capillare di internet hanno consentito l’ideazione e il commercio di servizi e prodotti nuovi.
Per esempio, le carte di credito erano in uso nei Diner Clubs americani fin dal Secondo Dopoguerra, ma, quando negli Anni Cinquanta le banche commerciali avevano provato a diffonderle, si erano scontrate con un problema di “scarsa democrazia di mercato”: gli elevati costi di gestione delle carte consentivano solo alle imprese e agli individui più facoltosi di possederne una. L’Information Technology, prima negli Anni Sessanta e poi negli Anni Ottanta, ha consentito di superare il problema dei costi troppo elevati, riducendo i tempi e i costi di raccolta, elaborazione e gestione delle informazioni.
Percorsi simili hanno seguito la diffusione degli ATM, i totem elettronici che consentono il ritiro e deposito di denaro contante al di fuori della sede bancaria e senza la necessità di interfacciarsi col personale, e gli ABM (o Home Banking), le piattaforme online che funzionano come una vera e propria banca virtuale.
Sebbene rimanga indiscutibile l’importanza del FinTech sia per il settore bancario e finanziario che per i consumatori, tuttavia è necessario precisare che, uscendo dal perimetro del quotidiano, le invenzioni della Finance Technology hanno presentato aspetti piuttosto discutibili e poco rassicuranti.
Per esempio, la cartolarizzazione, resa possibile dai nuovi sistemi di calcolo nei primi Anni Duemila, è il processo di trasformazione di attività finanziarie non liquide (i mutui, per esempio) in titoli scambiabili sul mercato secondario, che ha causato la bolla speculativa del 2008. Anche le criptovalute, attaccate dal Premio Nobel Joseph Stiglitz per la loro scarsa trasparenza, devono la loro esistenza al progresso del settore IT.
In un certo senso si potrebbe paragonare il FinTech ad una macchina sportiva, che può portarci molto lontano in poco tempo ma, allo stesso tempo, estremamente pericolosa qualora al volante si abbia un guidatore poco esperto o del tutto incosciente.
Infine, quando si parla di tecnologia e innovazione, è necessario interrogarsi sul rapporto tra “nuovo” e “vecchio”, prestando particolare attenzione ai fattori produttivi – lavoro e tecnologia – che spesso risultano essere in competizione tra di loro, classificandosi più come mutualmente escludenti che complementari.
Nel suo Fintech Revolution (Egea, 2016), Matteo Rizzi si sofferma sul significato di Disruptive Innovation. L’innovazione può avere – e nel caso di quella in campo finanziario e bancario sembra essere proprio così – la tendenza a distruggere tutto ciò che era, per costruire da zero tutto ciò che sarà. L’innovazione, quindi, non si configura solamente come maggiore efficienza, dinamicità e costi minori, ma anche incertezza e precarietà per chi lavora nei settori che la sperimentano. Il coefficiente “distruttivo” dell’innovazione può – legittimamente – incutere timore.
In conclusione, innovazione e tecnologia non sono valori assoluti, ascrivibili a categorie nette come quelle di giusto e sbagliato, buono e cattivo, ma sono piuttosto strumenti, che possono e devono essere accordati, sottoposti a continua manutenzione e periodicamente controllati. In questa arena si gioca la partita del legislatore. O, per dirla come Rizzi stesso: L’innovazione, prima o poi, vince sempre. Oggi è compito anche delle istituzioni riuscire a farla vincere prima: ne va del futuro non tanto delle start-up, quanto di intere comunità nazionali e sovranazionali.