Autore : Action Institute
Data: 02-04-2020
Tipo: Altro
Tematica: Salute
Mentre il numero di contagi e decessi dovuti alla diffusione del nuovo Coronavirus continuano ad aumentare, quasi un terzo della popolazione mondiale si trova in quarantena. Sia la quantità sia la natura delle restrizioni imposte ai cittadini variano di paese in paese: se la Francia ha da poco superato le due settimane di lockdown totale del paese, per gli Italiani è passato quasi un mese dall’estensione a tutta la penisola della cosiddetta zona rossa. Solo sabato e domenica scorsi, la polizia locale ha sanzionato quasi 12.000 cittadini sorpresi fuori casa per motivi che non rientravano tra quelli di comprovata necessità e tra il 26 e il 29 marzo ha denunciato 257 persone risultate positive al virus per violazione della quarantena. Lo sforzo che è richiesto alla cittadinanza non è da sottovalutare e risulta sempre più chiaro che con il passare delle settimane la capacità della popolazione di rispettare le restrizioni imposte, pur comprendendo la loro importanza, si sta riducendo. Numerosi studi riconoscono depressione, ansia, rabbia e irritabilità come potenziali effetti di un prolungato periodo di isolamento. Data l’importanza che la collaborazione dei cittadini ha nella limitazione della diffusione del virus, è necessario analizzare l’impatto generato a livello psicologico dalle restrizioni al movimento adottate dai governi dei paesi più colpiti.
Proprio per questo, abbiamo intervistato Francesco Pagnini, esperto di Action Institute, professore associato di psicologia clinica presso l’Università Cattolica di Milano e ricercatore alla Harvard University, che ha recentemente portato avanti, insieme a una equipe di studiosi dell’ ateneo milanese, uno studio dal titolo “Coronavirus 2019: benessere, paure e comportamenti”. Il prof. Pagnini ha come proprio interesse di studio principale il miglioramento del benessere psicologico delle persone e il complesso rapporto tra mente e corpo, ed è dunque attento studioso di tali dinamiche sociali e psicologiche. È fondamentale la comprensione del fenomeno che stiamo vivendo per riuscire a implementare delle risposte adattive sia durante questi mesi di emergenza sia più in là nel tempo, quando la crisi sanitaria sarà anche parzialmente rientrata.
Di cosa parla il suo nuovo studio? E perché ha ritenuto importante svilupparlo proprio in questo momento?
Nell’emergenza che stiamo vivendo, oltre alla preponderante componente medica e alle conseguenze economiche, vi è un fortissimo impatto dal punto psicologico che riguarda il benessere psicofisico di tutte le persone coinvolte. Volevamo studiare sin da subito la portata di questi effetti psicologici al fine di ideare rapidamente delle contromisure. Insieme a me hanno lavorato diversi colleghi del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica: Michela Balconi, Mauro Bertolotti, Andrea Bonanomi, Emanuela Confalonieri, Cinzia Di Dio, Gabriella Gilli, Guendalina Graffigna, Camillo Regalia, Emanuela Saita, Semira Tagliabue e Daniela Villani. Sebbene il nostro focus principale fosse quello dell’impatto psicologico e del benessere, abbiamo poi avuto diversi approfondimenti su tematiche di tipo sociale circa la percezione dell’altro, la vicinanza o la distanza che in un periodo simile si modificano.
Per la raccolta dei dati è stato utilizzato un sondaggio composto da circa 200 quesiti, quale volevate fosse il target?
Abbiamo definito lo studio all’inizio della diffusione in Italia dell’epidemia, quando ancora c’era una netta distinzione tra zona rossa, nei dieci comuni del lodigiano e a Vo’ euganeo, zona gialla relativa all’intera Lombardia e a buona parte del Veneto e zona verde, nel resto del Paese. Tramite condivisioni sui social media, abbiamo puntato a raggiungere alcune centinaia di risposte dalle regioni parti d’Italia. Nel giro di pochissimi giorni abbiamo ricevuto una risposta molto forte, con oltre tremila persone che hanno partecipato allo studio. Questo è un segnale interessante di per sé perché racconta della voglia di essere coinvolti, di sentirsi attivi, di aiutare la ricerca, di lanciare un messaggio positivo. Dopo qualche giorno, abbiamo chiuso la raccolta dati perché dal punto di vista psicologico la risposta può modificarsi molto nel corso dei giorni e delle settimane. L’impatto psicologico prodotto dalla quarantena, infatti, è abbastanza studiato in letteratura e sembra che questo cambi in modo non lineare, ma tendenzialmente incrementale. La prima settimana i livelli di stress rimangono relativamente bassi e l’impatto sulla qualità della vita, come rivela anche il nostro studio, è molto limitato. Tuttavia, più passa il tempo più la situazione si appesantisce con conseguenze psicologiche crescenti.
Dunque, secondo lei quanto a lungo potrebbe durare un simile lockdown restando sostenibile psicologicamente?
Questo è molto difficile da dire perché appunto non è lineare. Sembra da alcuni studi che nelle prime settimane (o nei primi mesi) l’impatto psicologico abbia un andamento esponenziale: la terza e la quarta settimana sono decisamente più pesanti della prima e della seconda. Dopodiché sulla base del tipo di risposta sociale e del tipo di limitazioni imposte la risposta cambia perché molti si adattano, vengono studiate delle strategie per compensare. Stiamo già vedendo molti esempi di adattamento: gli aperitivi su Skype o i flash mob dai balconi sono un modo per sentirsi un po’ più in controllo. Tuttavia, nel lungo periodo questi aspetti da soli potrebbero non essere sufficienti per salvaguardare il benessere psicologico e per qualcuno sarà importante intervenire in modo più profondo, con un supporto psicologico strutturato. Per questo motivo, nella nostra Facoltà e nel nostro Dipartimento, stiamo avviando degli interventi di sostegno psicologico di vario genere.
A suo parere quali sono i gruppi sociali che risentono maggiormente di questo stato? Mi vengono in mente gli anziani ma sicuramente non sono i soli a soffrire.
Al di là della distinzione per gruppo sociale inteso come caratteristiche demografiche ci sono degli aspetti psicologici che portano alcune persone a risentire maggiormente di questa situazione. Mi riferisco in particolare a chi ha un atteggiamento molto rigido dal punto di vista cognitivo, e fa quindi fatica a adattarsi, o a chi soffre, per vari motivi, di una certa instabilità emotiva. Le persone che si adattano maggiormente sono quelle che sono in grado di ragionare in modo flessibile sulla situazione, capaci pertanto non solo di adeguarsi, ad essa ma anche di vederla in termini positivi. Facciamo un esempio economico: tra qualche mese, nel contesto di una economia severamente danneggiata, ci sarà qualcuno che in modo perfettamente lecito sarà riuscito tramite una risposta creativa e flessibile a trarre del guadagno, ad esempio riconvertendo il proprio lavoro e la propria produzione e fornendo ciò di cui la popolazione ha bisogno. Tutto questo è valido anche sul piano psicologico: qualcuno, quando saremo fuori da questo stato di cose, guardandosi indietro penserà che senza la quarantena non avrebbe mai ragionato su un determinato aspetto, non avrebbe mai compiuto certe azioni, o scoperto alcune cose nuove. Più si riesce ad andare in questa direzione, a sfruttare le peculiarità della situazione, più se ne uscirà in termini e positivi e, soprattutto, con un’accresciuta maturità.
Quali sono i rischi psicologici cui potremmo andare incontro una volta terminata l’emergenza?
C’è un rischio in particolare a cui siamo esposti che è quello di sviluppare ciò che in psicologia si definisce impotenza appresa. Questo concetto, sviluppato da Martin Seligman dell’University of Pennsylvania, in prima istanza è stato studiato sugli animali. In breve, un animale che impara di non poter scappare da una situazione che crea disagio, anche quando avrà la possibilità di uscirne resterà bloccato. Lo stesso vale per gli uomini. Se prolungata, questa quarantena potrebbe far sentire un forte senso di impotenza nelle persone, soprattutto quelle emotivamente più a rischio, diventando un problema anche una volta terminata l’emergenza, e finendo col richiedere una fase di riadattamento con qualche forma di supporto professionale. Alcune persone potrebbero, ad esempio, sentirsi meno in grado di fare alcune cose o aver paura di uscire anche una volta terminato il pericolo.
Ritiene che gli aspetti psicologici di questa vicenda vengano sottovalutati a livello governativo o, in generale, dall’opinione pubblica? Nel computo dei costi di questa emergenza raramente vengono tenuti di conto.
La risposta a questa domanda non è banale. In generale, lo sforzo delle autorità in questa fase si concentra sul contenimento dell’epidemia e sulla cura di coloro che ne hanno bisogno. In questo momento, il benessere psicologico e sociale confligge in parte con le esigenze della quarantena, e queste azioni sono necessarie. Come ricorda Maslow, c’è una tassonomia di bisogni che funziona come una piramide. Prima vanno messi in sicurezza i bisogni primari, legati alla sopravvivenza. Poi si può intervenire su bisogni di tipo psicologico. Chiaramente, con il prosieguo della quarantena, la componente psicosociale viene sempre più stressata. Sarà fondamentale, in questo senso mettere in atto, a tempo debito, delle opportune contromisure. Ma, al di là delle istituzioni, che stanno necessariamente indirizzando sforzi e risorse per la gestione degli aspetti medici, in primis, e contenere i danni all’economia, diverse altre organizzazioni si stanno mettendo in campo per fornire qualche forma di sostegno psicologico e sociale. In effetti, in questo momento di crisi, c’è modo di vedere anche quanto molte persone siano disponibili ad aiutare gli altri (per non parlare di quanto sta facendo il personale sanitario!).
Prima si parlava di contromisure attuabili per lenire questo stato, potrebbe darne un quadro generale?
In quest’ottica ci sono due possibilità principali. Per chi ha un bisogno più marcato, è importante un intervento strutturato, che richiede un’interazione o con uno psicologo, in un contesto individuale o di gruppo/comunitario. Questo può permettere di elaborare il vissuto di impotenza che può emergere in questo momento di perdita di controllo. Per chi ha un bisogno meno specifico, invece, quello che tutti possiamo fare nella nostra esperienza di quarantena è – piuttosto che ragionare su quello che non possiamo fare, arrabbiarci per quello e sviluppare un senso di frustrazione – studiare le nuove opportunità che questa situazione può portare, e vedere come queste siano compatibili con i nostri obiettivi di vita. Il modo che ritengo più adatto a far fronte a tutto questo è trovare all’interno di questo contesto di sfida le risorse e le opportunità per sviluppare qualcosa di diverso, sia esso sul piano personale, formativo o lavorativo. Bisogna però avere una prospettiva aperta, con creatività e curiosità verso il nuovo. La flessibilità e l’apertura mentale sono le caratteristiche che, in questo periodo più che in altri, potremmo provare ad allenare.
Dalle parole del prof. Pagnini, illuminanti nell’illustrare un fenomeno così complesso, emergono numerosi spunti di riflessione. Gli esperti stessi non sono in grado di stimare per quanto ancora sarà sostenibile dal punto di vista psicologico una situazione di lockdown pressoché totale come quella che l’Italia sta vivendo. È incerto, inoltre, per quanto tempo ancora tali restrizioni saranno necessarie. Alla luce di queste considerazioni, è importante non sottovalutare le conseguenze impreviste che le misure ideate per limitare il contagio stanno generando sulla popolazione. Salvaguardare il benessere psicologico e sociale, pur non essendo al momento alla base della piramide dei bisogni di Maslow, con il passare delle settimane acquisirà sempre più importanza. Come spiega il Prof. Pagnini, non esiste un’unica soluzione ai rischi che un prolungato periodo di isolamento può creare: il tipo di risposta di cui gli individui avranno bisogno varia a seconda del grado di elasticità mentale e stabilità emotiva di ognuno. In ogni caso, è necessario che la quarantena non indebolisca il nostro spirito, che anche in un momento di tale difficoltà si trovi la capacità di reagire e, perché no, anche di migliorarsi lavorando sul proprio animo.