Autore : Andrea Abriani
Data: 23-05-2018
Tipo: Altro
Tematica: Action Institute
Eurostat, l’ente statistico dell’Unione Europea, ha recentemente pubblicato i dati di aprile 2018 relativi al costo del lavoro ed alla retribuzione nei paesi UE. Il report mette in luce uno scenario estremamente eterogeneo, con profonde differenze fra stati membri in tutti i parametri presentati.
Saltano all’occhio le disparità legate al costo del lavoro: nei 28 stati membri il costo medio di un lavoratore è di 26,80 euro l’ora, un dato poco significativo se si considera che scendendo al livello nazionale si va dai 42,50 euro l’ora della Danimarca ai 4,90 euro l’ora della Bulgaria. Tali disparità costituiscono un ostacolo allo sviluppo di un mercato del lavoro europeo omogeneo e provocano un flusso di capitale umano dai paesi meno competitivi verso quelli che offrono opportunità lavorative più attraenti. Una crescita economica stabile ed uniforme è nell’interesse di tutti gli stati membri dell’Unione Europea ed il raggiungimento di questo obiettivo passa anche dalla riduzione di questo gap.
Si potrebbe pensare che le evidenti differenze siano frutto di molteplici variabili che influiscono sul costo del lavoro, difficilmente inquadrabili nel loro insieme: spese previdenziali sostenute dal datore di lavoro, tasse e salario lordo del dipendente in primis. Ma anche analizzando i dati sullo stipendio netto, tali differenze persistono. In 7 dei 28 stati membri il lavoratore gode in media di una retribuzione superiore ai 30.000 euro annui, mentre in 10 di essi la stessa voce scende sotto i 10.000 euro annui. Numeri che dovrebbero lanciare un allarme su quanto ci sia ancora da fare per garantire più competitività tra tutti gli stati europei.
Tuttavia, per ipotizzare delle soluzioni a questo problema è necessaria una riflessione più ampia, che tenga conto anche delle opportunità formative e/o lavorative che ogni Paese offre. Inoltre, va compreso come esse influenzino lo sviluppo economico attraverso l’acquisizione di capitale umano straniero. In altri termini, serve capire come il flusso di forza lavoro (in particolar modo quella altamente specializzata) all’interno dell’Unione, crea dei circoli virtuosi da un lato e viziosi dall’altro. Da una parte infatti paesi come Germania, Danimarca e Regno Unito sono in grado di implementare policies che promuovono borse di studio e di ricerca, corsi di formazione professionale e assunzione per cittadini UE, che con il loro apporto contribuiscono allo sviluppo economico del paese. Dall’altra invece le nazioni incapaci di competere nel mercato del lavoro subiscono una perdita di capitale umano, sul quale hanno investito in formazione ed educazione, senza avere un ritorno in termini di produttività sull’investimento.
L’Italia sotto questo punto di vista sembra collocarsi nel secondo gruppo. Il rapporto Le Sfide Della Politica Economica del Centro Studi Confindustria del settembre 2017, evidenzia come disoccupazione (soprattutto a livello giovanile) e fuga di cervelli siano un “doppio spreco” per lo Stato, conseguenza di un circolo vizioso da cui sembra difficile liberarsi. “L’inadeguato livello dell’occupazione giovanile – si legge – sta producendo gravi conseguenze permanenti sulla società e sull’economia dell’Italia, sotto forma di depauperamento del capitale sociale e del capitale umano del Paese. Depauperamento che si traduce in abbassamento del potenziale di crescita e quindi, in parte, vanifica gli effetti sullo stesso potenziale delle riforme strutturali così faticosamente realizzate in questi anni.” Doppio spreco che trova parziale conferma nei dati di Confindustria: in Germania l’occupazione dei giovani dai 15 ai 24 anni è pari al 45,7%, mentre in Italia rimane ferma al 16,6%.
Il fenomeno, stando al rapporto di Confindustria, incide pesantemente sull’economia: si stima che la crescita e l’educazione di un figlio dalla nascita ai 25 anni comporti una spesa familiare media di 165.000 euro. Moltiplicando questo dato per i 260.000 giovani tra i 15 e i 39 anni emigrati all’estero dal 2008 ad oggi, ne risulta una perdita totale di 42,8 miliardi di euro, che aumenta al tasso di 14 miliardi l’anno, ovvero un punto percentuale di PIL. Un’emorragia di giovane talento che Mario Draghi, presidente della BCE, ha battezzato “lost generation”, invitando l’Italia e gli altri Paesi europei ad agire velocemente per fornire a questa generazione smarrita dei punti di riferimento certi.
Al fine di ridurre il wage gap dell’Italia e tra stati europei è dunque fondamentale agire su politiche di integrazione nel mondo del lavoro post-laurea e post-diploma, così da poter trattenere una maggiore quota di capitale umano ed utilizzarla per attrarre il resto della forza lavoro. Un’ipotesi potrebbe essere partire dai centri di eccellenza presenti sul territorio, per poi instaurare ecosistemi di educazione, ricerca scientifica e impresa attorno ad essi. La sfida rimane quella di svincolarsi dal fenomeno del doppio spreco, che potrà essere risolto solamente con investimenti mirati alla formazione, agevolazioni fiscali e assunzioni per un periodo di tempo sufficientemente lungo da consentire il ricambio generazionale.
Ciò non significa assolutamente disincentivare i giovani ad acquisire esperienze oltre i confini nazionali: come dimostra il progetto Erasmus l’apertura a nuovi orizzonti di conoscenza è vitale per la crescita dei nuovi talenti. Tuttavia l’Italia, tramite le misure sopracitate, dovrebbe trasmettere più fiducia nei suoi giovani, incoraggiandoli ad affrontare queste esperienze con la prospettiva di rimpatriare ed impiegare quanto imparato a beneficio dello sviluppo del Paese.