Autore : Jonathan Rossi
Data: 23-04-2018
Tipo: Altro
Tematica: Action Institute
La Rai assicura […] la più completa e plurale rappresentazione dei ruoli che le donne svolgono nella società, nonché la realizzazione di contenuti volti alla prevenzione e al contrasto della violenza in qualsiasi forma nei confronti delle donne”.
Così recita l’articolo 9 “Parità di genere” del nuovo contratto di servizio 2018-2022 Rai. Un documento con il quale l’agenzia riconferma il proprio impegno nella battaglia contro gli stereotipi di genere e l’oggettivazione delle donne nella televisione nazionale. Un’affermazione di grande importanza considerando l’impatto che i mass media hanno nella formazione dell’immaginario collettivo sociale. Basti pensare a come, per tutta la seconda metà del Novecento, la televisione abbia offerto una vasta gamma di programmi accomunati da un’immagine del genere femminile relegata alla sfera privata, che trovava nel lavoro domestico l’emblema del proprio “io sociale”. Già nel 1979 l’UNESCO sottolineava come la rappresentazione della figura femminile trasmessa dai media fosse completamente distorta, con la donna prevalentemente impiegata come oggetto decorativo, dipendente dal proprio marito dal punto di vista finanziario e dedita esclusivamente alla cura della casa.
Ma i tempi cambiano, e da allora molte cose sono migliorate, anche grazie al contributo di programmi come il Global Media Monitoring Project, che da ben 20 anni è il più grande progetto di ricerca ed advocacy contro la discriminazione di genere nei media, o End News Sexism By 2020. Tuttavia, sforzi rilevanti in questa lotta provengono anche dal nostro Paese e non solo dall’estero. Si guardi ad esempio ad associazioni come “Se non ora quando” e “Gi.U.Li.A”, un blog curato da una redazione di 800 giornaliste impegnate nella promozione del dibattito sulle tematiche di genere. Eppure, è evidente che il mondo dell’informazione risenta ancora di un radicato e marcato sessismo a livello di contenuti, rappresentanza, ed immagini trasmesse. Secondo i dati del GMMP 2015, le donne continuano a essere marginalizzate negli show televisivi riguardanti la politica (15%) e l’economia (10%), mentre la loro presenza aumenta quando si parla di temi concernenti la famiglia, l’educazione e la salute. Nel libro “Ways of seeing”, lo scrittore britannico John Berger spiega come l’idealizzazione e l’oggettivazione della donna da parte dei media possa causare problemi di autostima femminile, con conseguente ricaduta sulle scelte educative e lavorative future. La Teoria dell’oggettivazione (1997), dei sociologi Fredrikson e Roberts, descrive uno dei maggiori rischi di un’errata rappresentazione della figura femminile. Essa mostra infatti il passaggio cruciale dall’oggettivazione alla auto-oggettivazione, dove la donna interiorizza la prospettiva dell’osservatore, portandola ad essere maggiormente esposta a problemi alimentari e depressione. Ma quali ripercussioni può quindi avere questa rappresentazione distorta e stereotipata della donna nelle scelte che questa compie durante la sua vita?
Secondo l’ISTAT, il numero di donne nei programmi STEM (Science, Technology, Engeenering, Mathematics) risulta ancora essere inferiore a quello degli uomini, nonostante il numero di donne con un livello di istruzione terziario superi quello della controparte maschile. L’esatta percentuale è 32.5% contro il 19.9%. Da una recente indagine dell’Ipsos sui pregiudizi di genere tra ragazzi/e delle scuole medie condotto in Italia, emerge una visione del futuro fortemente stereotipata. Quando alla domanda “Cosa vorresti fare da grande?” i maschi rispondono ingegnere, medico e informatico, le ragazze dichiarano di aspirare a diventare insegnanti, veterinari e avvocati, manifestando quindi un’ambizione professionale fortemente orientata a determinati sbocchi. Ciò può essere riconducibile a percezioni distorte delle proprie possibilità nel futuro lavorativo: sebbene i dati mostrino come le ragazze non pensino di essere meno portate scolasticamente rispetto alla controparte maschile, il 56% delle ragazze pensa che sia più facile per un uomo rispetto che per una donna fare carriera. E nonostante questi flussi abbiano dirette ripercussioni sulle disparità salariali di genere, i dati mostrano che c’è qualcosa di più. Infatti, secondo l’OECD, se il 60% del gender pay gap è dovuto ad una maggiore propensione delle donne al lavoro part-time, a mansioni poco remunerate e a lavori con una bassa fascia retributiva, circa il restante 40% risulta essere ancora inspiegato. Inoltre, la figura della donna nella società è ancora legata a compiti familiari come la cura dei figli e lavori domestici, e ciò influisce fortemente sulla loro partecipazione al mondo del lavoro. Dagli ultimi dati Istat, si evince infatti che nel secondo trimestre 2017 il tasso di occupazione delle 25-49enni era l’81,1% per le donne che vivono da sole, il 70,8% per quelle che vivono in coppia senza figli, ed il 56,4% per le madri.
La forte responsabilizzazione dei produttori televisivi e una regolamentazione più centralizzata potrebbero quindi essere le vie più pratiche per affrontare i problemi dell’oggettivazione femminile e dello stereotipo nei media. Questo poiché le persone, o i gruppi, da cui ci sentiamo rappresentati influenzano automaticamente la nostra percezione del mondo: la maggiore partecipazione al dibattito pubblico e il distacco dalle rappresentazioni tipiche del velinismo devono essere i principali fattori attraverso i quali incanalare l’enorme potenza comunicativa dei media, indirizzandoli verso la sensibilizzazione e promozione della rinascita sociale della donna.