Autore : Action Institute
Data: 15-05-2020
Tipo: Altro
Tematica: Salute
Siamo ormai in fase 2: abbiamo intervistato Fabrizio Landi, Presidente di Toscana Life Sciences ed Esperto di Action, per riflettere su cosa non ha funzionato in questi mesi e per immaginare gli scenari futuri. Il nostro Esperto spiega come globalizzazione e tagli abbiano sicuramente giocato un ruolo nell’impreparazione iniziale dei nostri sistemi sanitari. Nel frattempo, la corsa al vaccino sta ridisegnando gli equilibri geopolitici. Bisogna dunque riportare al centro la sanità e l’industria collegata, settori strategici al pari della difesa, perché – afferma Landi – anche in futuro continueremo a combattere contro shock pandemici.
Il nostro paese è stato travolto dal Covid-19: all’inizio non si trovavano mascherine, tutt’ora oltre alle mascherine, mancano i tamponi e c’è solo un’azienda italiana (fra l’altro piccola) che produce ventilatori polmonari… Secondo lei cosa è andato storto?
Il Covid-19 ha mostrato come il sistema produttivo italiano, europeo, e più in generale occidentale, abbia nel corso degli anni smantellato componenti fondamentali della propria industria manifatturiera, estremizzando la logica del contenimento del costo di produzione. Questo oggi appare lampante nelle filiere produttive connesse all’emergenza coronavirus, ma vale per tantissimi altri settori. Basti pensare alla Apple, che sta pensando di riportare parte dei propri impianti produttivi, attualmente localizzati in Cina, negli Stati Uniti. Oppure, alla Hyundai coreana, che è stata costretta ad interrompere la sua produzione perché mancavano componenti, prodotti nella zona di Wuhan, specializzata nell’automotive.
La spinta alla globalizzazione è anche riconducibile all’adozione, da parte delle strutture pubbliche, ma non solo, del prezzo come unico criterio di acquisto. Si tenga presente che le mascherine chirurgiche, le stesse che oggi non si riescono a vendere al pubblico al prezzo calmierato di 50 centesimi l’una, perché le farmacie non le trovano a meno di 0,39 euro e andrebbero in perdita, negli ultimi mesi del 2019 venivano comprate dalle centrali acquisti regionali a 8 centesimi, con solo prodotti di origine sud-est asiatica disponibili. La produzione di mascherine, e di dpi in genere (teloni, camici, guanti, occhiali…) è stata tutta delocalizzata. Stesso discorso vale per i ventilatori, per cui invece Milano, grazie al contributo innovatore del professor Gattinoni, era un punto di riferimento negli anni Ottanta e Novanta. Appunto oggi in Italia a produrli sino a tre mesi fa era rimasta la sola Siare con i suoi 35 dipendenti, azienda che era riuscita a trovare una sua nicchia di mercato con cui rimanere attiva, ovviamente non in grado di far fronte alle necessità esplose nei mesi scorsi.
Per quel che riguarda i tamponi, invece, il dramma è la mancanza di quantità sufficienti di reagenti. La Lombardia è riuscita a fare così pochi tamponi rispetto alla sua popolazione, proprio perché ha avuto grandi difficoltà a reperirli sul mercato internazionale, dove, da metà marzo, la domanda è cresciuta esponenzialmente. Gli impianti che producono questi reagenti si trovano in Cina, Corea, Taiwan, Singapore e paesi limitrofi, e sono dimensionati per produrre quantitativi 8-9 volte più bassi rispetto all’attuale fabbisogno mondiale. Sotto pressione, è logico che abbiano prioritariamente soddisfatto le richieste locali, ed è dunque spiegato il successo coreano nei test molecolari. Adesso l’Italia si sta attrezzando per produrre reagenti, ma è chiaro che questi imprenditori non potranno andare avanti se non si rimette in discussione il caposaldo della politica industriale degli ultimi venti, trent’anni. E cioè che, dato un minimo di specifiche tecniche, il prezzo è diventato l’unico elemento di acquisto. Il rischio è quello di finire come la prima gara Consip in Pandemia sulle mascherine, vinta da una persona denunciata alla autorità giudiziaria, che neanche le produceva e pensava di poterle acquistare sul mercato con i soldi dell’appalto. Oppure pagare le forniture a un prezzo molto più alto del loro valore.
È quindi per questo che la sanità italiana, ma non solo la nostra in Europa, ha rischiato il collasso?
Esatto. L’impreparazione iniziale del nostro sistema industriale di articoli sanitari è dovuta alla gestione delle gare di acquisto al massimo ribasso, che ha avuto impatti negativi sul sistema produttivo italiano ed europeo. In mancanza di acquirenti pronti a pagare prezzi equi rispetto ai costi, le industrie che operavano in settori strategici per la sanità hanno chiuso o delocalizzato. Le ripetute operazioni di spending review in ambito sanitario sono state finalizzate proprio a questo, e cioè ad imporre il minimo costo nell’acquisto delle forniture. Nei paesi OCSE, la sanità entra in crisi se la spesa scende al di sotto di una soglia critica, pari all’incirca all’8.0-8.5% del Pil. Secondo i dati più recenti, riferiti al 2018, la spesa sanitaria italiana ammonta all’8.8% del Pil. Tuttavia, i fondi pubblici, cioè quelli erogati tramite il Fondo Sanitario Nazionale, rappresentano solo il 6.2% del Pil, il resto (2.3% del Pil) è spesa privata: a fronte dei circa 115 miliardi di euro spesi dallo stato, il settore privato ne spende 44.
Teorizzato proprio per fronteggiare la scarsità di risorse, il modello ospedale-centrico lombardo è stato duramente messo in discussione dalla pandemia. L’ospedale moderno dovrebbe essere pensato come centro per i malati in fase acuta, mentre i pazienti meno gravi, i cronici, gli anziani e i non malati dovrebbero essere seguiti in strutture di medicina territoriale. Negli ultimi vent’anni, tuttavia, la Lombardia ha puntato tutto sugli ospedali, creando sì una rete ospedaliera d’eccellenza, con strutture grandi e ben organizzate, capaci di sfruttare economie di scala e dunque risparmiando, ma ha di fatto smantellato l’assistenza territoriale regionale, cosa non avvenuta nel vicino Veneto, con i risultati nettamente più efficaci qui raggiunti nella gestione di Covid-19 che sono sotto i nostri occhi. Un modello di questo tipo è assolutamente controproducente nella gestione di focolai epidemici. E lo confermano i dati Istat, che nella provincia di Bergamo evidenziano un aumento dei decessi nel marzo 2020 di oltre il 550% rispetto alla media mensile 2015-2019.
Come spera possano cambiare le cose in futuro?
Per mettere davvero in sicurezza il paese, è necessario abbandonare le logiche di massimo ribasso del costo e fornire ai produttori i giusti incentivi di mercato, anche una volta passata l’emergenza. Il tema è strategico: per assicurare la permanenza in Italia delle industrie che riforniscono il sistema sanitario, una parte degli acquisti pubblici dovrebbe essere riservata a prodotti nazionali di qualità. Ricordiamoci che la battaglia per le mascherine non è ancora finita, perché al momento i dpi, insieme al distanziamento fisico, sono i principali strumenti di rallentamento del contagio. Per molti mesi ancora i reagenti continueranno a scarseggiare con i problemi collegati: i test sierologici sono importanti, perché permettono una prima scrematura delle persone da sottoporre per conferma dell’infezione o meno, con i tamponi di natura veloce. Sommando i due tipi di test, avendoli nella quantità necessaria, avremo quindi uno strumento essenziale per gestire la fase 2, in attesa dell’arrivo di cure e/o vaccini per entrare nella fase 3. L’Italia ha tutte le carte in regola per ripristinare le produzioni sanitarie: cultura e tecnologia non ci mancano. Quel che bisogna fare è ripensare le scelte organizzative della nostra sanità, creando spazi duraturi per i prodotti del Made in Italy. In Cina, ad esempio, il 25% degli acquisti degli ospedali è riservato a prodotti cinesi. Come ha sostenuto Bill Gates anche in passato, le crisi epidemiche producono effetti simili a quelli delle guerre, e la supremazia geopolitica sarà nelle mani di chi detiene terapie efficaci e vaccini, gli equivalenti delle armi nucleari contro la pandemia.
A questo proposito, secondo lei è più probabile che si arrivi prima a una cura o a un vaccino? Quali sono i possibili scenari?
La questione del vaccino è estremamente complessa, per due motivi. Innanzitutto, non è scontato si riesca a trovarne uno efficace (infatti non abbiamo ancora nulla contro l’HIV, nonostante le ingenti risorse investite a cavallo del terzo millennio). In secondo luogo, anche ammesso che il vaccino sia presto disponibile, la vaccinazione di tutta la popolazione mondiale richiederebbe tempo: quasi 8 miliardi di dosi andrebbero prima prodotte e poi somministrate. Non è affatto semplice adeguare il sistema industriale alla produzione di massa di un prodotto così complesso. Si pensi, infatti, che l’attuale produzione mondiale di vaccini virali si aggira attorno ai 200-300 milioni di dosi l’anno. In questo campo, le aziende leader sono grandi multinazionali europee, Sanofi, francese, e Gsk, britannica, che proprio a metà aprile hanno annunciato che uniranno le forze contro il coronavirus. Collaboreranno non solo sulla ricerca, ma soprattutto per mettere a regime una capacità produttiva adeguata. Proprio l’11 maggio scorso, il governo belga ha annunciato un investimento immediato di 20 milioni di euro per la costruzione di una “vaccinopolis” che possa aumentare la potenza vaccinale europea.
Con i colleghi di Toscana Life Sciences, abbiamo recentemente stimato che nel mondo esistono oltre 130 centri impegnati nella ricerca del vaccino anti-Covid. Di questi, quello forse più avanti, almeno sulla carta, è un istituto di ricerca collegato con l’esercito cinese (Academy of Military Medical Sciences). Mettiamo il caso che effettivamente i cinesi arrivino per primi al vaccino. Nonostante gli sforzi – tutti ricordiamo il nuovo ospedale di Wuhan costruito nel giro di pochi giorni – la loro capacità di produzione su larga scala potrebbe comunque non essere sufficiente per molti mesi se non anni. Il processo produttivo di una dose di vaccino ha le sue specificità e richiede un certo grado di sofisticazione. Per aumentare la quantità di vaccini prodotti è necessario dunque che ci siano tanti centri di produzione sparsi per il mondo, e che non siano appannaggio di una sola nazione.
Questo potrebbe dunque spiegare le posizioni assunte recentemente dagli Stati Uniti?
Sì, viene da pensare che l’amministrazione americana abbia messo in ipotesi che la Cina scopra per prima il vaccino e che stia ipotizzando una sua responsabilità nella diffusione del virus anche al fine ultimo di poter negoziare la licenza di produzione, per aziende statunitense, dell’eventuale vaccino cinese, come forma di compensazione. In generale, gli Stati Uniti tentano di attrarre a sé la ricerca e la produzione vaccinale, esercitando una fortissima suasion sulle piccole e grandi aziende di tutto il mondo, soprattutto europee, impegnate su questo fronte. Gli incentivi al trasferimento di laboratori e impianti sul suolo americano non sarebbero di poco conto: la garanzia di accesso al mercato più grande del mondo sviluppato e la protezione dello zio Sam. L’esempio più eclatante è il tentativo americano di comprare la tedesca CureVac per un miliardo di dollari, per avere l’esclusiva sul vaccino che sta sviluppando, portando ricerca e produzione in Usa. L’accordo è poi fallito per l’intervento del principale azionista dell’azienda, Hopp, fondatore tra l’altro di Sap che ha dichiarato di voler mantenere l’azienda in Germania, insensibile alla ricca offerta.
Tornando alle cure, ci sono diversi approcci. In TSL, grazie alla partnership con lo Spallanzani di Roma, stiamo sviluppando quello basato sugli anticorpi monoclonali umani, ottenendo risultati che giudichiamo eccezionali dopo solo 90 giorni. Il progetto è partito già il 21 febbraio, subito dopo la scoperta del primo caso a Codogno, quando si è deciso di applicare al nuovo coronavirus una tecnica già conosciuta e collaudata. L’idea di base è questa: dal sangue dei pazienti guariti si estraggono le cellule B, che contengono gli anticorpi che hanno sconfitto il virus. Questi ultimi vengono messi in coltura insieme al virus per testare il loro effetto neutralizzante e identificare quelli più forti. Ne sono stati già individuati 17 (su circa 1500 anticorpi biologicamente attivi estratti), andremo avanti ancora un paio di mesi per selezionare i più potenti e adatti, per procedere poi con la clonazione e le prove cliniche. Uno dei vantaggi di questo metodo risiede nella sua origine naturale, al contrario molecole di sintesi chimica potrebbero indurre nell’organismo effetti collaterali. Gli anticorpi monoclonali, facilmente replicabili, permetterebbero inoltre di superare il principale limite delle cure al plasma di cui si parla molto in questi giorni, ossia la non-scalabilità e la limitatezza dei volumi producibili. Infine, farmaci di questo tipo non solo impediscono che le condizioni di una persona infetta si aggravino, ma possono essere utilizzati anche per la profilassi sulle persone non (ancora) contagiate ma soggette a forti rischi di contagio.
Al di là degli esiti incoraggianti del nostro progetto, realisticamente è più probabile che si arrivi prima a una cura, o a più cure, percorrendo le diverse strade possibili a cui accennavo, piuttosto che a un vaccino. Fermo restando che l’obiettivo rimane quello di evitare l’innescarsi e lo svilupparsi della malattia, anche i malati più gravi oggi possono essere curati con maggior successo grazie alla coppia ossigenoterapia-cocktail di farmaci antinfiammatori. Infatti, la pressione sulle terapie intensive va alleggerendosi.
Lei si è più volte espresso per la centralità e il ruolo strategico degli investimenti in salute pubblica, al pari di quelli per la difesa e la sicurezza. Quali passi dovrebbero essere intrapresi per aumentare la nostra risk preparadness allo scoppio di nuove pandemie?
L’avvicendarsi di crisi pandemiche, sempre più ravvicinate, nel solo ultimo secolo (influenza spagnola, 1918-19, asiatica, 1957-58, Hong-Kong, 1968, SARS, 2002-2004, MERS, 2012) dovrebbe metterci in allerta per il futuro prossimo. Per questo la tutela della salute pubblica, che pure è sancita a livello costituzionale, dovrebbe essere ripensata in chiave strategica, come si fa per la difesa. Ad esempio, tutta la filiera produttiva di Leonardo, di cui sono consigliere, è stata concentrata, per scelta, nei paesi Nato. Non sarebbe concepibile, infatti, che durante un’azione di contrasto, non si possa costruire un aereo militare perché mancano i componenti, fabbricati da una nazione nemica. Nessun paese occidentale si sognerebbe di avere nella propria pipeline di fornitura militare un paese con cui non ha un rapporto di alleanza. Non a caso, i membri NATO, eccezion fatta per la Turchia, non comprano attrezzature belliche dalla Russia. Lo stesso dovrebbe essere valido per l’industria sanitaria. Gli Stati Uniti, come abbiamo visto, l’hanno capito chiaramente. In Europa ci si muove ancora in ordine sparso, fatte salve alcune recenti dichiarazioni della Merkel, mentre in Italia la questione rimane ancora in sospeso. Una delle missioni del commissario Arcuri dovrebbe essere quella di ricostituire il tessuto produttivo italiano nel campo delle forniture sanitarie. Vedremo se gli saranno dati gli strumenti per farlo. Oltre al rafforzamento della medicina territoriale, tra le azioni concrete per evitare che il sistema sanitario si ritrovi nuovamente impreparato c’è sicuramente la definizione di nuove regole e principii di contabilità pubblica per la salvaguardia dell’industria nazionale nei settori sanitari strategici. E, al limite, l’ingresso dello stato-socio nelle compagini azionarie, per stimolare gli investimenti e garantirne la permanenza e la capacità di reazione allo scoppio della prossima pandemia.