Autore : Anna Longo
Data: 11-03-2021
Tipo: Altro
Tematica: Action Institute
Il 99° anniversario dell’introduzione della giornata internazionale della donna in Italia è ricorso in un periodo storico in cui è più che mai necessario concentrarsi tanto sulle conquiste sociali, economiche e politiche, quanto sulle discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora vittime. Specialmente nell’ultimo anno, abbiamo assistito ad una stagnazione – o, in alcuni casi, addirittura un’involuzione – nel campo dei progressi fatti verso la piena parità di genere.
A destare preoccupazione, sono innanzitutto i dati sulla partecipazione al mercato del lavoro: nel terzo trimestre del 2020, il tasso di occupazione femminile medio tra i Paesi OCSE si attestava attorno al 60%. Tre membri dell’Eurozona si collocavano al di sotto di questa soglia: Spagna (56%), Italia (48%) e Grecia (47%). Inoltre, i dati dell’Eurostat evidenziano come, nel 2019, gli squilibri nei guadagni tra uomo e donna fossero pari a circa il 15% a livello europeo.
La pandemia è stata però la causa di un vero e proprio passo indietro, specialmente nei paesi meno avanzati sotto il profilo della gender equality. La complessità del momento che stiamo vivendo ha contribuito a coniare il termine Shecession, di cui abbiamo parlato in un articolo precedente. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, l’Istat ha recentemente pubblicato un report che sottolinea l’entità dello squilibrio nei posti di lavoro persi a causa della pandemia: solo nel mese di dicembre 2020, su 101 mila occupati in meno, il 98% era di sesso femminile.
Il tema delle disuguaglianze di genere nel mondo del lavoro, tuttavia, rappresenta solo una parte del più ampio discorso sul gender gap. Il Gender gap index, introdotto dal World Economic Forum nel 2006 ed aggiornato annualmente, misura il divario tra uomo e donna per ciascun paese in quattro campi: partecipazione ed opportunità economica, istruzione, salute e potere politico. Il Report 2020 conferma la tendenza degli anni passati: le eccellenze a livello globale sono i paesi nordici europei con scores superiori a 0,82 su 1, mentre l’Italia perde posizioni collocandosi al 76° posto del ranking.
Se il gender gap può considerarsi praticamente chiuso per quanto riguarda salute ed istruzione, la realtà è ben diversa negli altri due campi di analisi. L’ambito della partecipazione ed opportunità economica, su cui ci siamo focalizzati in apertura, è spesso al centro del dibattito pubblico. Qui il livello stimato di chiusura del divario di genere si colloca al 58%. Tuttavia, il campo in cui le donne sono meno rappresentate è proprio quello del potere politico, dove il gender gap si considera chiuso solo al 25%. La presenza delle donne in politica, così come nelle posizioni dirigenziali nel settore privato, meriterebbe dunque maggiore attenzione, date le implicazioni che ne conseguono.
Infatti, come sottolineato dalla Professoressa Paola Profeta, economista e direttrice dell’Axa Research Lab on Gender Equality, la relazione tra gender gap e policies attuate per il suo contrasto è duplice: la promozione dell’occupazione e dell’emancipazione femminile passa certamente attraverso le politiche pubbliche ma, d’altra parte, il maggior peso ricoperto dalle donne nella società ha l’effetto di orientare l’agenda di policy verso interventi mirati alla riduzione del divario di genere. Il medesimo studio evidenzia infatti l’esistenza di una correlazione positiva tra la percentuale di donne presenti nei parlamenti e la spesa pubblica destinata a famiglie ed educazione per l’infanzia.
La pandemia offre ulteriori spunti di analisi: uno studio condotto da Coscieme et al. (2020), analizzando i dati sulle morti da Covid-19 forniti dall’ECDC, rileva che nei paesi guidati da donne i tassi di mortalità sono stati sei volte più bassi. Inoltre, in questi ultimi si ritrovano anche livelli di equità sociale mediamente più elevati. Secondo gli autori, una possibile spiegazione del fenomeno risiederebbe nella maggior proattività e rapidità con cui si è caratterizzata l’azione delle leader donne rispetto a quella dei colleghi uomini, come confermato dalle analisi di Garikipati e Kambhampati (2020), insieme ad una maggior focalizzazione sulle questioni di benessere fisico e sociale rispetto a quelle economiche.
Interessanti risultati provengono inoltre da uno studio condotto da Sergent e Stajkovicm (2020): analizzando i verbali delle riunioni di governo svolte negli Stati Uniti tra aprile e maggio, gli autori hanno riscontrato una maggior frequenza di utilizzo dei termini connessi con la sfera dei sentimenti da parte delle leader donne. Inoltre, queste ultime sembrerebbero aver privilegiato le tematiche connesse al lavoro e al denaro, rispetto a quelle sui decessi da Covid-19, trasmettendo maggior ottimismo e sicurezza. Questi fattori potrebbero aver contribuito, da un lato, ad una comunicazione più efficace delle misure restrittive, e dall’altra, ad una compliance maggiore da parte dei cittadini.
Esistono dunque delle caratteristiche intrinseche alla leadership femminile? La letteratura suggerisce che uomini e donne tendono ad avere reazioni diverse di fronte alle esperienze di crisi: generalmente, le prime tendono ad anticipare con più pessimismo le conseguenze negative, agendo in maniera prudente, mentre invece gli uomini tendono ad esternare più rabbia, fattore che conduce spesso a decisioni maggiormente rischiose.
La diversa attitudine al rischio di uomini e donne, e di conseguenza la diversa gestione delle situazioni di incertezza, è alla base della “Lehman Sisters hypothesis”, elaborata da Irene van Staveren e recentemente citata anche da Christine Lagarde. Secondo questa teoria, una maggiore rappresentanza femminile nel mondo della finanza avrebbe potuto attenuare alcuni dei behavioural drivers soggiacenti alla crisi del 2008. Tuttavia, secondo l’autrice, queste stesse caratteristiche sono anche alla radice della scarsa presenza di leader donne: gli stereotipi di genere infatti rendono per queste ultime molto più difficile ottenere credibilità nei ruoli apicali. Inoltre, un report del McKinsey Institute rileva l’esistenza di un ambition gap: solo il 26% delle donne desidera raggiungere una posizione dirigenziale in finanza, contro il 40% degli uomini.
Una maggior presenza femminile porterebbe benefici non soltanto nella pratica gestionale, come suggerito dagli studi citati, ma contribuirebbe sensibilmente all’abbattimento di quegli stessi stereotipi che ad oggi minano la concreta realizzazione della gender equality. Come evidenziato da Irene van Staveren, infatti, il meccanismo del “soffitto di cristallo” continua ad operare anche laddove le performance delle donne superano quelle degli uomini, dal momento che il concetto stesso di leadership è connesso a valori comunemente associati alla sfera maschile. L’esperienza della pandemia ha evidenziato con maggior forza come alla leadership femminile sia connessa la promozione di un’agenda di policy più attenta alla parità di genere, questione che, lungi dal riguardare soltanto le donne, ha conseguenze positive sulla società e l’economia nel loro complesso, soprattutto alla luce della disomogeneità degli effetti del Covid-19.