Autore : G. Zucchini, G. Lecce ed A. Caputo
Data: 12-04-2016
Tipo: Altro
Tematica: Capitale Umano
L’8 Aprile, la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea e l’Ufficio di Informazione del Parlamento europeo in Italia hanno lanciato la campagna semestrale #EuFactor. Il progetto mira a sensibilizzare e indirizzare i giovani tra i 16 e i 19 anni verso carriere STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), data la paradossale compresenza di un’allarmante disoccupazione giovanile e di crescenti opportunità lavorative in questi settori. A partire da tale iniziativa, Action Institute propone delle soluzioni per valorizzare appieno l’istituto dell’alternanza scuola-lavoro, introdotto con la riforma della Buona Scuola.
Scuola ed imprese, due mondi ancora troppo distanti. In uno scenario in cui la disoccupazione giovanile è stagnante a livelli allarmanti (39.1% a Febbraio 2016), e l’87% degli imprenditori sostiene che l’esperienza sia un fattore cruciale nel processo di selezione, il governo italiano inserisce l’alternanza scuola-lavoro all’interno della riforma soprannominata “Buona Scuola”. Attualmente, la legge prevede 200 ore obbligatorie di apprendimento in situazione lavorativa per i licei e 400 per gli istituti tecnici e professionali, distribuite sugli ultimi tre anni della scuola superiore.
Molti i benefici attesi da questa iniziativa: non solo un’opportunità per gli studenti di esplorare in anticipo le proprie attitudini lavorative, ma anche un’occasione di formazione pratica che permetterà di acquisire “on the job” capacità tecniche, facilitando il futuro ingresso nel mondo del lavoro. Infatti, se da un lato i giovani lamentano la complessità nel trovare un lavoro, dall’altro le aziende accusano difficoltà nel reperimento di profili professionali qualificati. Proprio dal sistema informativo Excelsior di Unioncamere emerge come, nel 2015, le aziende non siano riuscite a trovare oltre 76mila unità di personale, soprattutto tecnici. Nello specifico, le imprese riportano la mancanza di candidati con profili ad alta specializzazione, mentre per le professioni di livello intermedio deplorano l’insufficiente formazione ricevuta e la scarsa esperienza acquisita.
Indiscusse, quindi, le opportunità offerte da questa legge ad alunni ed aziende, a destare preoccupazione da un punto di vista pratico sono però i numeri. Stando all’ISTAT, infatti, sono più di cinquecentomila gli studenti italiani che quest’anno, essendo iscritti ad una terza superiore, devono partecipare al progetto di alternanza. Numero che crescerà, fino a triplicare, a partire dall’anno scolastico 2017/18, quando il programma entrerà a regime e l’obbligo coinvolgerà pertanto l’intero triennio. A far pensare ulteriormente, oltre la fattibilità pratica di offrire un percorso a tutti, dato l’elevato numero di partecipanti, è soprattutto la capacità di garantire agli studenti una scelta adeguata ed elevati standard qualitativi. Per avere un’idea delle disparità e dei rischi ai quali gli studenti potrebbero essere esposti, basti pensare alla differente distribuzione di scuole ed aziende tra Nord e Sud Italia e alle rispettive peculiarità: città metropolitane e periferie, regioni con abbondanza di grandi attività e aree caratterizzate da piccole e medie imprese. L’alternanza presenta, quindi, non solo un problema di sostenibilità nelle aree in cui le imprese sono poche o, se presenti, piccole, ma anche di accesso ad opportunità di qualità e di interesse per gli studenti nelle diverse aree geografiche.
In questo scenario di possibili difficoltà nell’offrire tirocini di qualità e nel definire percorsi di alternanza che stimolino le attitudini accademiche e lavorative, come far sì che l’alternanza si trasformi in un volano sociale e non in una zavorra? Action Institute suggerisce di modificare la legge inserendo la possibilità, per licei ed istituti tecnici, di impiegare parte del monte-ore in corsi pre-universitari, svolti da docenti e ricercatori accademici, e promossi dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR). Infatti, nel corrente anno accademico circa il 76% delle matricole ha conseguito, lo scorso anno scolastico, il diploma presso un liceo, mentre circa il 20% presso un istituto tecnico. L’offerta non dovrebbe essere prevista per gli istituti professionali, dato il ridotto tasso di passaggio dalla scuola all’università – intorno all’11,7%.
Benché lo share del 20% per i tecnici non sia, relativamente al 76% per i licei, una percentuale rilevante, bisogna tener conto che i diplomati in istituti tecnici rappresentano una quota significativa tra i laureati per cui si registra un gap di offerta sul mercato del lavoro. “Introvabili”, così Unioncamere definisce i laureati in Ingegneria elettronica e dell’informazione (il 32,1% delle assunzioni si stima di difficile reperimento), corso frequentato per circa il 45% da studenti provenienti da un istituto tecnico. Ecco quindi che ampliare l’offerta a tali istituti diventa cruciale, data l’importanza che certi profili professionali qualificati ricoprono nel far sì che l’Italia risponda efficacemente all’evoluzione del settore economico-industriale.
Nello specifico, il Think Tank propone la progettazione di due distinte tipologie di cicli didattici. Un’offerta dovrebbe includere dei corsi il cui spessore sia tale da permettere il riconoscimento dei crediti formativi in un eventuale percorso accademico post-diploma, potendo così anticipare la laurea ed il conseguente ingresso nel mondo del lavoro. Un’altra, indirizzata a coloro che non hanno ancora scelto se ed a quale facoltà iscriversi, dovrebbe comprendere corsi finalizzati all’orientamento, universitario e lavorativo, con la partecipazione di aziende o professionisti esterni per trasmettere aspettative ed esperienze il più reali possibili. La scelta di partecipare a tali corsi, piuttosto che effettuare stage, dovrebbe essere rimessa allo studente, che verrebbe poi selezionato in base a parametri meritocratici circa la sua predisposizione alla materia oggetto del corso prescelto.
In entrambi i casi, attraverso un più stretto legame tra le università e gli istituti superiori, gli studenti otterrebbero maggiore consapevolezza circa l’offerta del sistema educativo italiano e le caratteristiche delle possibili carriere lavorative. Ciò porterebbe ad una riduzione del tasso di cambio di percorso accademico e del tasso di abbandono, a beneficio finale di un’entrata anticipata nel mondo professionale. Si stima che ad un anno dall’immatricolazione circa il 15% degli studenti cambi il corso di laurea, mentre circa l’11% degli studenti abbandoni gli studi, quota che sale al 15% se valutata a tre anni dall’ingresso in università.
Ulteriore vantaggio per coloro che intendono iscriversi a facoltà a numero chiuso, come ad esempio medicina, sarebbe la preparazione, mediante corsi pre-universitari specifici, ai test di ammissione. D’altronde, questa opportunità, permetterebbe agli studenti con percorsi atipici di colmare le lacune per misurarsi ad armi pari con i loro coetanei. Infine, le università si troverebbero a competere nell’attrarre gli allievi migliori e nell’ottenimento dei fondi per coprire i costi del programma, a favore di quantità e qualità dell’offerta.
Una grande sfida, quella lanciata dalla riforma “Buona Scuola”, a docenti, alunni ed imprese, un progetto ambizioso che rivoluziona il sistema educativo italiano con lo scopo di arricchire il capitale umano. Necessario dunque garantire che ciò si verifichi. Sebbene utile per un’indagine interiore sulle proprie attitudini, perché obbligare studenti intenzionati a proseguire gli studi, semmai in materie umanistiche, a lavorare in impresa? Un maggiore arricchimento non potrebbe forse essere ottenuto attraverso una diversificazione delle attività di alternanza?