Autore : Emilia Sicari
Data: 23-03-2016
Tipo: Altro
Tematica: Capitale Umano
Un tasso di occupazione femminile al di sotto del 50%, un divario occupazionale di genere tra i più alti d’Europa e una percentuale di madri lavoratrici tra le più basse nei paesi Ocse, al di sotto del 60%. È il quadro che emerge guardando ai dati sull’occupazione femminile in Italia, ulteriormente aggravato dal fatto che le donne hanno in media risultati migliori degli uomini sia nell’istruzione secondaria sia in quella terziaria.
Nonostante la parità di genere sia riconosciuta tra i principi fondamentali della Costituzione italiana fin dal 1948, il nostro paese continua a non sfruttare adeguatamente un’importante fonte di crescita: il lavoro femminile.
Un’attenta analisi della legge fondamentale dello Stato, rileva le ragioni dello squilibrio tra uomini e donne sul mercato del lavoro. L’articolo 3 riconosce pari dignità sociale e uguaglianza di fronte alla legge senza distinzione di sesso e attribuisce allo Stato un ruolo proattivo nell’eliminare tutti gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione economica del paese. Tuttavia, il Titolo Terzo della Costituzione mostra una delle principali caratteristiche del nostro paese: la frizione tra la tutela della parità di genere nel mercato del lavoro e il modello di welfare familista tipico del nostro paese. Infatti, sebbene l’articolo 37 riconosca alle donne pari diritti e eguale retribuzione rispetto al lavoratore, il testo continua specificando che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare. Di conseguenza, la funzione di protezione sociale assegnata alla famiglia e al ruolo delle donne ha tradizionalmente ostacolato le carriere al femminile.
Nel tempo, infatti, le politiche familiari sono state oggetto di uno sviluppo lento e pieno di ostacoli. Nel dopoguerra i principali interventi riguardavano la tutela dei diritti di maternità e trasferimenti e benefici fiscali per famiglie a basso reddito e famiglie numerose. La “seconda ondata” femminista degli anni ’70 ha profondamente cambiato la concezione del ruolo femminile nella società, riuscendo a ottenere la legalizzazione dell’aborto e del divorzio e la riforma del diritto di famiglia (legge 151/75). Se nel ventennio successivo il declino del femminismo e il rinnovato supporto per le politiche a sostegno della famiglia tradizionale hanno bloccato il processo riformatore, dall’inizio degli anni 2000, concetti come work-life balance e infrastrutture sociali family-friendly si sono affermate nel dibattito politico a sostegno delle carriere al femminile. Incentivi all’assunzione delle donne, lavoro part-time, sevizi per l’infanzia, assegni familiari, pensioni di reversibilità e paternità obbligatoria, sono solo alcuni dei provvedimenti adottati prima che l’emergere della crisi economica e la crescente pressione sui sistemi di welfare arrestassero nuovamente il processo riformatore.
Nonostante indubbi miglioramenti, le politiche familiari in Italia hanno ancora un ruolo marginale, come dimostrato dal fatto che la spesa pubblica per prestazioni a sostegno della famiglia attraverso trasferimenti, servizi e incentivi fiscali si attesta intorno allo 2,0%, al di sotto della media dei paesi OCSE pari al 2,5%.
In seguito a queste considerazioni non stupisce quindi che nonostante la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia profondamente cambiata negli ultimi decenni, le carriere al femminile siano ancora piene di ostacoli, confermando la difficoltà italiana nel conciliare vita lavorativa e famiglia. Lo dimostra il fatto che le percentuali di uomini e donne che lavorano part-time o sono inattivi a causa di responsabilità familiari evidenziano uno squilibrio a favore delle seconde, confermando una tendenza alla divisione dei ruoli familiari ancora tradizionale e lontana dalla parità.
Intervenire a sostegno delle carriere al femminile è diventata ormai una priorità, se non per questioni etiche, almeno per ragioni puramente economiche: un maggiore tasso di occupazione femminile rafforza i redditi delle famiglie – un elemento particolarmente importante in una fase di elevata disoccupazione – e aiuta a controbilanciare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione. Alcune proiezioni mostrano infatti che se il tasso di partecipazione femminile convergesse con quello maschile, entro il 2030 la forza lavoro italiana aumenterebbe del 7% e il PIL pro capite crescerebbe dell’1% all’anno per i prossimi 20 anni.
Cosa fare allora per chiudere il gender gap?
L’incremento dei servizi per l’infanzia e per la cura degli anziani è il primo passo per incoraggiare la carriera delle donne. I servizi di assistenza per l’infanzia per i bambini con età inferiore a 3 anni sono infatti molto limitati, sia a causa dei posti limitati negli asili nido e nelle scuole materne, sia a causa del costo spesso elevato dei servizi. Infatti, tra il 2004 e il 2013 i bambini tra 0 e 2 anni a beneficiare di asili nidi pubblici sono aumentati solo dello 0,4%. Allo stato attuale, il gap nei servizi pubblici è colmato dal mercato, ma questo ha ovvie conseguenze negative sulla stratificazione sociale.
Inoltre, a causa della rigidità del mercato del lavoro e delle limitate opportunità di lavoro part-time, le madri lavoratrici sono spesso forzate a scegliere tra lavorare full time o non lavorare affatto. Di conseguenza, sarebbe opportuno introdurre degli incentivi per rendere gli orari lavorativi più flessibili, incoraggiando il lavoro part-time o il lavoro a distanza.
Le politiche scolastiche, poi, potrebbero intervenire sull’orario scolastico in modo che questo corrisponda alla durata tipica di un giorno lavorativo.
Tuttavia, implementare i servizi per la cura dei figli e degli anziani non è sufficiente a generare una più equilibrata distribuzione dei compiti all’interno della famiglia, cui potrebbe contribuire invece l’introduzione di una tassazione differenziata tra uomini e donne proposta da Ichino e Alesina. È dimostrato infatti che uomini e donne reagiscono in maniera diversa rispetto alle variazioni di salario: se al diminuire della retribuzione l’offerta di lavoro maschile tende a non decrescere, ciò non è valido per le lavoratrici, la cui offerta di lavoro aumenta a fronte di incrementi della retribuzione. Una minore tassazione sulle donne aumenterebbe quindi il lavoro femminile senza ridurre il gettito fiscale. Se le donne sono pagate di meno degli uomini, conviene che siano loro ad occuparsi dei compiti familiari. La tassazione differenziata per genere risolverebbe dunque questo problema aumentando il potere contrattuale delle donne all’interno delle coppie. Ad esempio, gli sgravi per assunzioni a tempo indeterminato previsti dalla Legge di Stabilità potrebbero essere modulati in modo da essere più generosi nei confronti delle donne.
È chiaro che tutte queste riforme richiederebbero ingenti investimenti pubblici e un sostegno politico che potrebbero essere difficili da ottenere dato l’elevato debito pubblico e l’invecchiamento dell’elettorato. A questo proposito, è però rilevante sottolineare che la tassazione differenziata per le donne potrebbe avere effetti benefici sul deficit, dal momento che concentrare gli sgravi fiscali sulle donne produrrebbe uno stimolo maggiore sull’economia.
Ad ogni modo, l’intervento pubblico è assolutamente necessario al fine di evitare i costi ancora maggiori che l’inattività potrebbe causare nel lungo periodo.