Autore : Stefano Calonghi
Data: 31-05-2018
Tipo: Altro
Tematica: Capitale Umano
“Il successo dipende dalla capacità di una nazione di utilizzare la sua gente. Se la gente è trattata male, se si lascia che le persone investano troppo poco su loro stesse, se una quota significativa della popolazione viene trascurata, qualunque nazione fallirà nel mondo moderno, per quanti macchinari possieda.”
Con queste parole Gary S. Becker, premio Nobel all’economia nel 1992, evidenzia un concetto tanto importante quanto, a volte, trascurato: la relazione indissolubile che intercorre tra la crescita economica di uno stato e l’attenzione riservata al proprio capitale umano. Proprio per sostenere la crescita di quest’ultimo si rende necessario comprendere le condizioni sociali ed economiche, oltre alle politiche nazionali e sovranazionali, favorevoli a perseguire tale obiettivo.
Focalizzando l’attenzione sull’Unione Europea, una delle variabili che più influisce sullo sviluppo del capitale umano risulta essere la differenza salariale tra i paesi che la compongono, ancora estremamente marcata: un lavoratore in Danimarca (il paese in cui si registra la più alta retribuzione mediana dell’Unione) guadagna, in termini di potere d’acquisto, circa 5 volte quanto guadagna uno che svolge il suo stesso lavoro in Bulgaria (il paese in cui si registra il dato più basso). Ma fino a che punto e in quali modalità il Wage Gap fra i paesi europei incide sullo sviluppo del capitale umano?
Proprio questa tematica è stata al centro della conferenza “Mind the (wage) gap!”, organizzata dall’associazione studentesca European Generation e tenutasi il 9 maggio presso l’Università Luigi Bocconi. Il professor Carlo Devillanova, docente associato di economia politica alla Bocconi, ha introdotto i due guest speaker della serata: Luca Solari, professore ordinario di organizzazione aziendale presso l’Università statale di Milano, e Carlotta de Franceschi, Presidente e co-fondatrice di Action Institute.
Il primo a intervenire è stato il professor Luca Solari. Egli ha fornito un’analisi dei fattori che contribuiscono ad alimentare il wage gap, da una prospettiva interna al contesto aziendale: infatti, parte del divario salariale può essere connesso a specifiche azioni compiute da singoli soggetti (compagnie o managers) in ambito della gestione delle risorse umane. Stando ad una ricerca condotta dal Cranet, basata sullo studio delle differenze nelle politiche di HR tra i paesi UE, è possibile individuare 4 aree, ciascuna contenente realtà anche molto diverse fra loro: l’area nordica, l’area centro-meridionale, l’area periferica e l’area occidentale. Le differenze vanno dall’investimento in HR come fattore di differenziazione (particolarmente intensa nell’area occidentale), a politiche orientate più alla soddisfazione del top management (come nell’area periferica) piuttosto che di tutti i lavoratori (come sembra accadere nell’area nordica). Il wage gap dunque è anche frutto di differenti culture manageriali: alla luce di ciò si può dire che esso, almeno in parte, sia effettivamente spiegabile da cause razionalmente individuabili (tra le quali potrebbe figurare anche la differenza di produttività fra aziende), e non comporti quindi un reale problema da risolvere. A preoccupare è piuttosto il “Bad gap”, la componente irrazionale del divario salariale, di cui si necessita una riduzione. Per fare ciò, occorrerebbe innanzitutto semplificare la mobilità dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea: infatti, le problematiche legate alle differenze tra paesi in termini fiscali e nel trattamento pensionistico rendono ancora estremamente difficile trasferirsi a lavorare in un altro paese comunitario. Un contratto di lavoro unico per tutti i nuovi lavoratori all’interno degli stati europei, inizierebbe ad eliminare queste difformità.
La dottoressa Carlotta De Franceschi ha focalizzato il suo intervento principalmente sulla situazione italiana da 3 punti di vista: educazione, digitalizzazione e investimento in Ricerca e Sviluppo. Il quadro che viene delineato è quello di uno stato totalmente impreparato a sostenere i cambiamenti in atto a livello mondiale: la velocità della quarta rivoluzione industriale fa sì che i vantaggi di essa non siano egualmente distribuiti, così come i salari. Occorrerebbe dunque un impegno importante da parte dello stato italiano per tenere il passo con le innovazioni tecnologiche: eppure, se si guardano ai dati circa la spesa in ricerca e sviluppo, l’Italia spende solamente l’1.3% del proprio PIL, contro il 3% della Germania. La situazione riguardante l’educazione non è certo più confortante, e vede l’Italia ben al di sotto degli stati a lei comparabili sotto svariati aspetti. Il dato più allarmante riguarda sicuramente le materie STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics): la polarizzazione del lavoro e la rapida sostituzione dei lavoratori causata dalla quarta rivoluzione industriale, hanno creato un aumento della domanda di laureati in tali materie: eppure in Italia il 39% dei laureati possiede un titolo di studio in materie Umanistiche; è evidente che gli studenti delle scuole superiori non ricevono un adeguato orientamento in merito alla scelta universitaria migliore per loro. Alla luce di questi dati è possibile comprendere la frase pronunciata dalla dottoressa De Franceschi durante il suo discorso: “la bassa qualità del capitale umano in Italia è probabilmente una delle principali problematiche che attualmente stanno frenando la crescita”.
Terminata questa prospettiva sulla situazione italiana, la dottoressa De Franceschi ha esposto la proposta di Action Institute per una riduzione del divario salariale: agevolazioni fiscali per l’Equity based compensation, una forma di compensazione del lavoratore tramite azioni aziendali. Come è stato dimostrato da diversi studi, essa contribuisce a ridurre le differenze salariali, oltre a incentivare fortemente il lavoratore.