Autore : Daniele Bucello
Data: 04-05-2016
Tipo: Altro
Tematica: Innovazione
L’UE ha lanciato una consultazione pubblica riguardo all’economia collaborativa ed alle piattaforme web-based i cui risultati parziali sono stati pubblicati a fine gennaio 2016. Da questi si evince come la grande maggioranza di cittadini ed imprese ritenga che ci siano normative ed altri ostacoli allo sviluppo di esse in Europa. L’incertezza circa i diritti e gli obblighi di utenti e fornitori rappresentano, secondo l’opinione più diffusa, la barriera più rilevante. Action Institute intende analizzare la portata rivoluzionaria di tale fenomeno ed i possibili risvolti normativi.
Pwc calcola che il 44% degli adulti statunitensi risulti avere familiarità con la sharing economy. Ma in cosa consiste esattamente tale fenomeno, di assai recente diffusione? Secondo Benita Matofska “l’economia della condivisione è un ecosistema socio-economico costruito intorno alla condivisione di risorse umane e materiali. Esso comprende la condivisione di creazione, produzione, distribuzione, commercio e consumo di beni e servizi da parte di persone ed organizzazioni differenti”. Sempre secondo Matofska, gli elementi costitutivi di tale ecosistema socio-economico sono 10 e consistono nei seguenti: persone, produzione, valore e sistemi di scambio, distribuzione, pianeta, potere, legge in comune, comunicazioni, cultura e futuro.
Particolarmente qualificante risulta l’elemento “valore e sistemi di scambio”, riguardo al quale Matofska afferma che la sharing economy è un’economia ibrida che tende a superare il tradizionale schema di scambio di prestazione contro denaro a beneficio di una varietà più sfumata di forme di scambio, incentivi e processi di creazione del valore. Questo infatti non consiste più soltanto nel valore meramente materiale e finanziario, ma anche in quello immateriale, ad esempio sociale ed ambientale; per una ragione di rispetto dell’ambiente, ma anche più in generale di attenzione a non sprecare ciò che si possiede, l’economia di condivisione incoraggia l’uso più efficiente delle risorse. Tale sistema di incentivi ibrido motiva le persone ad impegnarsi in attività produttive tradizionalmente di competenza delle imprese e ridistribuisce le risorse su scala territoriale, ma è in potenza attuabile su scala globale. Con la condivisione di beni tra cittadini vi è dunque una redistribuzione economica e sociale del potere e dei processi decisionali, in un sistema democratico che tramite le leggi incoraggi la partecipazione di massa delle persone a tutti i livelli ed alimenti una cultura di bene condiviso e sostenibile, in una visione sempre a lungo termine ed orientata al futuro.
Oggi piattaforme web-based come Airbnb, tramite cui si condividono abitazioni ed alloggi per un numero di notti prestabilito ad un compenso mediamente minore rispetto ad un albergo, ed Uber, con la quale si offrono o ottengono passaggi in automobile ad un prezzo inferiore rispetto al taxi, stanno vivendo una crescita esplosiva. Juliet Schor nell’ottobre del 2014 riportava che il valore della prima fosse di 10 miliardi di dollari e quello della seconda di 18 miliardi. Inoltre, per rendere ulteriormente l’idea, il report di Pwc prima citato calcola che la media di utenti di Airbnb per notte sia di 425.000 persone, circa il 22% superiore a quella dei clienti di Hilton Worldwide.
Per quanto riguarda Uber, si può affermare che nell’ultimo anno ci sia stata una crescita ulteriore di valore definibile addirittura tumultuosa: si è cioè passati, come riportato da Bruegel, dai sopraccitati 18 miliardi del 2014 ai 68 miliardi di valutazione nel dicembre 2015. Il medesimo articolo di Bruegel suggerisce che Uber, nata nel 2009, ha impiegato appena 6 anni di esistenza per superare il valore di società automobilistiche storiche e centenarie come General Motors e Ford ed anche quello di società leader nel settore dell’autonoleggio come Avis e Hertz. D’altro canto, continua Bruegel, il successo di tale piattaforma si è rivelato dannoso per i taxi tradizionali, i quali sono fortemente regolati e caratterizzati dalle licenze, che i tassisti devono obbligatoriamente acquistare ma difficili da ottenere. Ebbene, l’avvento di Uber ha fortemente ridotto il valore delle licenze, poiché queste adesso non proteggono più dalla concorrenza ed i tassisti, non essendo più in grado di venderle come previsto in passato, non sono finanziariamente protetti da tali svalutazioni.
L’ingresso nell’arena competitiva di piattaforme di sharing economy si è naturalmente rivelato complesso e problematico dal punto di vista della regolamentazione. Pwc riporta che il 64% dei consumatori intervistati sostiene che in tale settore la peer regulation, ossia il controllo sociale e tra pari reso possibile dalla registrazione sul web degli utenti, sia più importante delle regolamentazioni governative. Inoltre il 69% degli stessi rivela l’importanza del fattore fiducia, affermando che non ne riponeva alcuna nelle compagnie di sharing economy fino a quando non gliele ha raccomandate qualche persona fidata, con una preponderanza dunque dell’effetto passaparola. Dal momento che però, come evidenzia Bruegel, varie compagnie di taxi in Europa si sono recate in tribunale, sostenendo che Uber non è conforme alle loro normative ed opera pertanto in concorrenza sleale, oggi Uber è vietato o soggetto ad intense restrizioni in Belgio, Francia, Germania, Spagna ed Italia.
Il problema consiste nel fatto che gli organi di regolamentazione europei non si sono rivelati pronti per disciplinare alcune piattaforme di consumo collaborativo e, nel caso di Uber, non hanno saputo rivedere le loro restrizioni di prezzo per i taxi, dovendosi tra l’altro confrontare in continuazione con forti lobby di tassisti. La soluzione infatti non dovrebbe essere quella di vietare Uber, bensì regolarlo: la concorrenza sleale è frutto proprio della asimmetria regolamentare tra taxi ed imprese di car pooling online. La presenza di Uber potrebbe d’altro canto costringere il settore dei taxi ad innovare e ad adottare nuove tecnologie per migliorare i servizi: la pressione della concorrenza combinata con misure regolamentari appropriate genererebbe sicuramente efficienza.
Come evidenzia una ricerca dell’Harvard Shorenstein Center, la sharing economy pone in discussione il concetto di proprietà ed incentiva i cittadini-consumatori non più tanto a possedere beni nuovi, quando piuttosto ad ottimizzare e condividere quelli già posseduti e ad usufruire, in un’ottica di sostenibilità e convenienza reciproca, di quelli altrui. E’ una rivoluzione epocale, pertanto occorre che le leggi vi si adeguino. Nel febbraio 2014, Amsterdam è diventata la prima città ad introdurre la cosiddetta legislazione “Airbnb friendly”: una politica che rende facile per i residenti locali condividere le loro abitazioni, ma al tempo stesso combatte gli hotel illegali che abusano del sistema. A San Francisco, sempre nel 2014, è stata perfezionata una legge che consente affitti a breve termine ai residenti permanenti, a patto di essere soggetti alle tasse alberghiere cittadine. Anche a Londra, similmente, i regolamenti del 1970 che limitavano i soggiorni di breve durata nelle case sono stati recentemente sciolti, agevolando Airbnb ed operatori simili.
D’altro canto tale ricerca rileva anche come, nell’ambito automobilistico, alcune imprese leader nell’autonoleggio come Avis e Hertz abbiano coraggiosamente optato per mettersi in gioco: la prima nel 2013 ha investito mezzo miliardo di dollari nel servizio di car-sharing Zipcar e la seconda ha contestualmente introdotto un servizio simile. Tali mosse, inattese ed ammirevoli in quanto provenienti da incumbent tradizionali, mostrano che l’innovazione non è mai di per sé deleteria ed anche il vecchio, se si rinnova e non si adagia sul passato, può starne al passo e trarne importanti benefici.