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Una difficile convivenza: visioni dal mondo medico sul nostro rapporto con il nuovo Coronavirus

Autore : Action Institute

Data: 01-05-2020

Tipo: Altro

Tematica: Salute

Da quasi 2 mesi l’Italia, come molte altre nazioni d’Europa e del Mondo, si trova sotto stato di lockdown. Per provare a fare chiarezza su alcuni punti dell’enorme dibattito sul Coronavirus e le sue ripercussioni, abbiamo intervistato il nostro esperto di Salute Dott. Andrea Silenzi, vicepresidente vicario della Società Italiana di Leadership e Management in Medicina (SIMM) e attualmente attivo presso la Direzione Strategica dell’ATS di Brescia.

 

Cosa sono i test sierologici di cui si discute in questi giorni? Come differiscono dai tamponi e perché sono così importanti?

 

I test sierologici sono uno strumento molto importante nello studio e gestione delle malattie infettive perché ci permettono di capire l’avvenuta esposizione di un soggetto al virus nonché l’entità e la temporalità di questo contatto. La loro finalità principale è quella, attraverso studi di sieroprevalenza (serosurveys) di poter avere una stima affidabile sul reale numero dei contagi avvenuti in una data popolazione. Esistono due tipologie di test sierologici, entrambi basati sull’analisi del sangue: quelli che analizzano il sangue periferico capillare (i cosiddetti kit rapidi o test pungi-dito, al centro del dibattito) e quelli da laboratorio che richiedono un prelievo di sangue venoso in provetta con analisi in ELISA o chemiluminescenza. I primi, purtroppo, in questa fase possono diventare un problema in quanto hanno scarsa sensibilità e specificità e il loro uso incontrollato rischia di dare false sicurezze, in caso di risultatati falsi negativi, o di ingenerare comportamenti impropri in caso di falsi positivi. Difatti, questi kit sono stati sperimentati e validati sul campo in una situazione già di emergenza a Wuhan non potendo seguire in questi mesi un normale iter di validazione.

 

In generale i test sierologici vanno intesi in questa fase più come uno strumento di ricerca che non di operatività in sanità pubblica. La finalità primaria è quella di una stima del numero di contagi su larga scala per apprezzare meglio in che punto della curva epidemiologica ci troviamo e avere una stima attendibile del sommerso dei casi. Per fare questo, servirà un alto grado di coordinamento tra Ministero e ISS e le Regioni, per tentare di avere modalità di testing omogenei e risultati comparabili. Concetti spesso abbinati ai test sierologici come le “patenti di immunità” sono esagerazioni assolutamente non corrette. Al momento non sappiamo nemmeno con certezza quanto possa durare un’eventuale immunità al COVID-19 (le stime più attendibili, fatte sulla base delle conoscenze che abbiamo sul SARS-CoV-1, sono di un periodo che va dai 6 ai 12 mesi) ed eventuali proclami del genere vanno considerati con la giusta dose di scetticismo. Tuttavia, lo strumento dei test sierologici potrebbe, se ben implementato e all’interno di una strategia chiara in abbinamento al testing molecolare (tampone), essere di enorme aiuto.

 

Circola da qualche giorno sul web una proposta sul fornire apertamente microdati sui contagiati. Lei cosa ne pensa?

 

Certamente potrebbero fornire spunti utili, però necessitano una impalcatura tecnologica di cui al momento l’Italia non dispone. I sistemi informativi regionali trasmettono dati con un certo ritardo e ci sono difficoltà nell’aggregarli in maniera rapida ed efficace. Per il Covid-19, molte difficoltà derivano dal fatto che il sistema sanitario nella sua interezza richiede ancora molti passaggi per passare ad una fase di piena digitalizzazione.

 

A questo proposito, si ha (da non addetti ai lavori) l’impressione che le misure dell’Italia risentano di una leggera arretratezza tecnologica del nostro Paese, specie se paragonato a paesi dell’Estremo Oriente… È una impressione corretta?

 

Dipende. Va detto che le nazioni che spesso sentiamo nominare come esempio di “best practice” come la Sud Corea hanno avuto, anche a causa di recenti eventi epidemici, una maggiore prontezza e capacità di azione. Quella che tecnicamente si chiama “preaparedness”. Fatta questa premessa, tuttavia, si riscontra anche come ci siano differenti gradi di penetrazione tecnologica fra i Paesi.

 

L’Italia risente di un assetto organizzativo ancora scarsamente digitalizzato e di un rapporto Stato-Regioni poco chiaro e troppo spesso conflittuale.

 

Un maggiore uso di tecnologie avanzate non avrebbe certo evitato la grande crisi che viviamo ma, se correttamente inseriti in una strategia di sanità pubblica, alcuni strumenti possono essere di enorme aiuto per il sistema sanitario. Un esempio può essere quello delle app per il tracciamento digitale dei contatti (digital contact tracing) che potrebbe aiutare i professionisti del territorio, in primis i Dipartimenti di Prevenzione delle ASL/ATS, a velocizzare i ritmi delle tradizionali indagini epidemiologiche. Se i numeri sono così alti la tecnologia può essere decisiva. In poco si è passati in poco più di 10 giorni da 0 a 2500 casi accertati, per ognuno dei quali sono state svolte indagini epidemiologiche per ricostruire le catene di contagio e mettere in isolamento i contatti. Con velocità di crescita del genere si intuisce subito quanto possano essere preziose applicazioni digitali da affiancare ai metodi tradizionali.

 

Infine, bisogna anche sottolineare come le diverse disponibilità economiche dei Paesi abbiano influenzato le capacità di risposta. In Germania ad esempio non c’è stata una necessità impellente di raddoppiare i posti letto in terapia intensiva perché ne avevano già in sovrabbondanza. Invece, paesi come la Spagna, che hanno negli ultimi anni sperimentato tagli importanti alla sanità e al welfare, hanno dovuto migliorare ed allargare rapidamente le proprie strutture, con tutte le complicazioni connesse.

 

I contagi sembrano rallentare in molte zone d’Italia. La drammatica esperienza di Lombardia e Veneto come è stata utile per proteggere regioni con un sistema sanitario meno performante?

 

Il primo fattore di cui hanno beneficiato tutte le regioni sono state le misure di lockdown imposte su scala nazionale. Queste misure sono state rispettate da gran parte della popolazione e ciò ha portato a enormi vantaggi in termini di prevenzione. La possibilità di bloccare la diffusione del virus ha permesso alle regioni del Centro-Sud di organizzarsi ed avere una situazione molto più gestibile. Le pratiche di testing e tracciamento dei contatti messe subito in atto hanno scongiurato lo sviluppo di cluster come quelli visti in Nord Italia. I contagi di queste settimane sono stati quasi solo in RSA o nei micronuclei familiari o abitativi.

 

Come si evolverà il nostro rapporto col coronavirus?

 

Dovremo imparare a convivere con il nuovo Coronavirus almeno fino a quando non verrà trovato un vaccino. Questa non è certo una novità, sono molti i virus che in passato hanno fatto un salto di specie colonizzando l’uomo come nuova nicchia ecologica.

 

La ricerca sta correndo ad una velocità pazzesca grazie alla collaborazione internazionale, mai così unita come oggi contro il comune nemico. Trovare un vaccino sicuro ed efficace, però, non sarà sufficiente di per sé. Servirà anche del tempo per preparare le dosi per implementare un piano di vaccinazione di massa sulla popolazione.

 

Ogni giorno le nostre conoscenze sul SARS-CoV-2 aumentano, ma c’è ancora molto da scoprire, comprendere e sperimentare.

 

Riguardo al vaccino, dobbiamo aspettarci che verrà prodotto da Stati Uniti o Europa oppure Paesi con politiche più lasse sui test clinici potrebbero far uscire in commercio vaccini in tempi minori?

 

Dal punto di vista scientifico, la ricerca sul vaccino per il COVID-19 parte già da importanti risultati ottenuti per la SARS e la MERS. Il nuovo Coronavirus presenta molte peculiarità ma c’è già una importante base di lavoro.

 

Ovviamente, è difficile prevedere chi svilupperà per primo un vaccino. In Europa si hanno già delle accelerazioni rispetto alle tempistiche tradizionali e c’è un grande impulso vista la gravità della situazione. Detto questo, non vedo con favore il parere di alcuni editoriali o lettere che suggeriscono di usare metodologie con volontari quasi “spinti” a prendere parte. Bisognerà sempre porre grande attenzione nel rispettare i principi etici ed evitare “scorciatoie” pericolose. Comunque, penso che alla fine il vaccino verrà prodotto o da una nazione europea o degli Stati Uniti. L’Italia sta collaborando con i suoi centri di ricerca a molte sperimentazioni e ha sicuramente grande storia e potenzialità produttive.

 

Ultimamente tornano online molte dichiarazioni di diverse fonti sui rischi di future pandemie. Queste “previsioni” fino a che punto sono state tenute in considerazione nell’ambiente medico?

 

Il rischio pandemia è un tema che è stato sempre presente nelle discussioni degli esperti di Global Health. C’è un rapporto molto delicato fra la salute del singolo e il benessere delle comunità ma, ancora di più, tra la salute umana e quella dell’ecosistema pianeta. Sempre un maggior numero di discipline si incontrano su questi temi per trovare studiare questo equilibrio. La mancanza di equilibrio facilita il cosiddetto effetto “spillover” e, a questo riguardo, bisogna analizzare quale sia il ruolo dell’attività umana nell’accelerazione della diffusione delle malattie infettive. Un mondo fortemente globalizzato ed interconnesso come quello attuale non solo rende la trasmissione di agenti patogeni più rapida, ma aumenta anche le possibilità di insorgenza di nuove malattie.

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è l’organismo principale per operazioni di vigilanza e controllo per l’insorgenza di epidemie a livello globale. L’OMS è stata ultimamente molto criticata quasi dovesse trovare soluzioni immediate per i Paesi europei ma ci si dimentica troppo facilmente dell’enorme lavoro fatto dall’Agenzia in nazioni a basso reddito o con sistemi sanitari poco sviluppati.

 

Come sarà il mondo dopo? Quali sono le lezioni più importanti che abbiamo appreso per il settore sanitario?

 

Il mondo post COVID-19 sarà, per forza di cose, molto diverso da quello che conoscevamo. Tra le varie lezioni per l’Italia c’è sicuramente quella legata alle attività del cosiddetto territorio ovvero di tutta l’organizzazione sanitaria al di fuori dell’ospedale. Servirà una chiara definizione degli obiettivi e visione di insieme per capire come meglio perseguirli. Al momento ci sono varie figure professionali differenti per competenze e per inquadramento, anche contrattuale. Ciò porta, complessivamente, a un quadro disgregato e poco organico. C’è necessità di integrare maggiormente i servizi rendendoli facilmente comprensibili e accessibili da parte dei cittadini. COVID19 ha insegnato che bisogna evitare di convogliare le persone solo presso gli ospedali, serve riuscire a diversificare le strutture per rispondere ai bisogni medici dei cittadini. Il sistema attuale risente di una certa disomogeneità e isolamento fra le sue varie componenti. Un inquadramento unico e condiviso tra medicina di sanità pubblica, medicina generale, infermieri e farmacisti porterebbe grandi benefici e permetterebbe una migliore cooperazione a beneficio delle comunità. Tecnicamente la strategia da seguire è quella di un piano Marshall per il territorio al fine di arrivare ad avere nel nostro Paese una moderna primary health care.

 

Altra lezione da apprendere rapidamente è quella relativa alla necessità di ripensare profondamente la cosiddetta Long-Term Care (cura di lunga degenza). Il tema delle RSA è stato centrale non solo in Italia, ma in tutta Europa. Nel Vecchio Continente l’OMS stima che circa il 40% dei decessi sia avvenuto in strutture di lunga degenza. Anche a livello nazionale si nota la forte correlazione fra numero di RSA e decessi. Sarà cruciale fare una attenta analisi di quanto accaduto e ripensare questi modelli organizzativi.

 

Per i professionisti del settore, quale è stato l’impatto emotivo di questa pandemia? Dall’opinione pubblica vengono elogiati come eroi, mentre sembrano essere lasciati quasi allo sbando dai loro datori di lavoro.

 

Guardando i dati, circa il 13% dei contagiati è personale sanitario. Si sarebbe dovuto agire meglio e prima in termini di reperimento di Dispositivi di Protezione Individuale e formazione del personale sanitario. Un tasto dolente è stato un rapporto non idilliaco tra comunicazione e scienza.

 

Alla scarsa capacità comunicativa di alcuni scienziati si è aggiunta la scarsa capacità di comprensione di temi scientifici di alcune parti del settore giornalistico. Molti professionisti dell’informazione non hanno mostrato le capacità richieste per trattare di complessi argomenti scientifici e hanno contribuito a creare la suddetta Infodemia. Questa è la prima pandemia dove l’informazione viaggia più rapidamente del contagio e bisognerà capire come riuscire a rendere più efficace la comunicazione scientifica. La dialettica attuale Scienza-Politica e Politica-Popolazione ha mostrato carenze da più parti e dovrà essere ripensata.

 

A questo proposito, si è parlato molto anche delle varie fake news circolate sul Coronavirus. Dal suo punto di vista, cosa si può fare per arginarle?

 

Per prima cosa, bisogna lavorare sulla formazione e sull’istruzione, che non solo è il primo argine contro le fake news ma anche uno dei maggiori determinanti della salute degli individui. Il rapporto positivo fra istruzione e salute è un concetto ben noto in letteratura, ma è molto spesso trascurato dalle politiche pubbliche. Oltre a un maggior intervento sull’istruzione, bisognerà come accennato prima, rivedere le modalità di comunicazione fra Scienza, Politica e Cittadini. Il web e i social in questa partita sono e saranno sempre più decisivi.

 

In questi giorni si è parlato molto anche della difficile convivenza fra Scienza, Economia e Politica. Chi deve decidere e come?

 

La decisione spetta sempre alla Politica, è quello è il suo ruolo. Il ruolo della Scienza, qui intesa come epidemiologia e salute pubblica, è quello di dare un supporto attraverso il metodo scientifico al decisore, fornendo tutti i dati che possono permettere di raggiungere una scelta meglio informata. Allo stesso tempo, le discipline economiche si occupano di fare analisi simili per il settore economico. La Politica deve fare una sintesi degli input ricevuti dalle due discipline per arrivare a una decisione. Non è richiesta solo abilità nel comprendere gli argomenti trattati, ma anche un certo coraggio nell’assumersi la responsabilità per scelte difficili. Tutto questo si chiama leadership.

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